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alfaBioipermedia
alfabeta2 maggio 2013 numero 29 anno III

MOLTITUDINI CONNESSE

A cura di Giorgio Griziotti

LA MOLTITUDINE CONNESSA

2. Giorgio Griziotti Sotto il regime della precarietà Bring Your Own Device 3. Tiziana Terranova Capitalismo cognitivo e vita neurale 3. Gianluca Giannelli Internet Sacer 4. Giuliana Guazzaroni Piegare la tecnologia alla creatività Superfici specchianti, gesti, forme e linguaggi non scontati La narrazione dell’Aquila in realtà aumentata 5. Anna Munster Nervi di dati La svolta neurologica verso/contro la rete multimediale

6. Gianluca Giannelli Smartvite / Smartcervelli 7. Danila Luppino, Marco Coratolo Estetiche sovversive e bioipermedia Per una genealogia del bioipermedia 8. Arianna Mainardi Confini in transito Tecnologie digitali e performance di genere 9. Francesca Bria, Federico Primosig, Francesco Nachira Internet come comune 9. Paolo Gerbaudo Social media e la coreografia del raduno 10. Lelio Demichelis Dal feticismo delle merci al feticismo della rete

iLIBRI
11. Gaspare Polizzi su Alexandre Kojève 11. Nicolas Martino su Pierre Clastres 11. Augusto Illuminati su Massimo Cacciari 12. Michele Spanò su Marco Revelli 12. Valentina Pisanty su Robert Gordon 12. Lorenzo Marmo su Jonathan Crary 12. Raffaella Perna su Gabriele D’Autilia 13. Stella Succi su Carla Subrizi 13. Marilena Renda su Sylvia Plath 13. Raffaella D’Elia su Ingeborg Bachmann 13. Laura Fortini su Alice Ceresa 14. Cetta Petrollo su Rosaria Lo Russo 14. Andrea Cortellessa su Mariangela Gualtieri 14. Clotilde Bertoni su Romano Luperini 14. Federico Francucci su Gabriele Frasca

GLI ARTISTI DI ALFABETA2
15. Agostino Bonalumi: artista europeo Intervista a Francesca Pola a cura di Stella Succi 15. Stella Succi L’Argento di Giosetta Fioroni 15. Raffaella Perna Immagini come parole: i Ricalchi di Renato Mambor

Le immagini sono tratte da video e installazioni di Nam June Paik

Nam June Paik, Tribute to Pythagoras, 1991 (particolare). Courtesy Fondazione Mudima.

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BIOIPERMEDIA

Sotto il regime della precarietà
Bring Your Own Device
Giorgio Griziotti

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tosh ispirandosi al 1984 orwelliano, quando poi pratica una politica di stretta osservanza neoliberale. Benefici per azionisti, manager ed evangelisti tecnologici, trattamenti indecenti per i giovani precari della catena degli Apple Store o per i subappaltati lavoratori cinesi che fabbricano iPhone in condizioni di semischiavismo. Un’analisi politica dei ruoli spesso antagonisti dei device, da strumento di produzione del comune a esche per nuove forme di sfruttamento della precarietà, è essenziale per tracciare le mappe dove s’intersecano produzione comune e prelievo di rendita. L’auto, altro oggetto d’interazione col territorio, ha un valo“Bioipermedia» è l’attuale dimensione della mediazione re d’uso cablato e limitato alle tecnologica. Una nuova generazione di dispositivi mobili si funzioni di trasporto e viaggio, affianca ai media tradizionali e alla generazione dei desktop che all’apice dell’era industriale nel disegnare e plasmare l’esperienza del quotidiano di vita; sono al centro delle dinamiche è l’intera esistenza a essere coinvolta nell’iperrealtà. di produzione e di vita. Tanto Le tecnologie connesse e «indossabili» ci sottomettono da diventare il soggetto centrale d’uno dei romanzi culto di a una percezione multisensoriale in cui spazio reale quell’epoca, On the Road, dove e spazio virtuale si confondono estendendo e amplificando i trentasei metri del famoso rogli stimoli emozionali. tolo di teletype su cui Jack KeCome si modificano in questo nuovo contesto i rapporti rouac lo scrive d’un fiato nel sociali, di produzione e di potere? Quale impatto avranno 1951 si trasformano in proluni prossimi servizi nomadi «offerti» dalle corporation gamento simbolico del nastro neurodigitali nell’accaparrare l’attenzione e nell’influenzare d’asfalto percorso al volante. le intenzioni degli always connected? Si tratta di un’ulteriore Negli anni Ottanta l’arrivo del pc permette di rompere gli trasformazione strutturale della società dell’informazione? schemi dell’innovazione induE, soprattutto, quali i percorsi e le vie d’uscita ipotizzabili striale; grazie a un sapere tecniper il dispiegarsi della moltitudine? co-scientifico generalizzato esso Lo speciale che segue propone spunti di riflessione diventa uno strumento d’indidel declinarsi dell’esperienza bioipermediale nei diversi pendenza nella cooperazione ambiti dell’espressione umana: dall’arte alla società, nelle attività dei servizi in pieno dallo sviluppo tecnologico alla rete, dalla politica boom e dove si gioca il braccio ai movimenti, dall’economia caratterizzata dai processi di ferro fra produzione autonoma e comando sul lavoro. In sedi finanziarizzazione alla precarizzazione guito la diffusione esplosiva e cognitivizzazione della forza-lavoro. della telefonia cellulare dà un Il dibattito è aperto e quanto mai attuale. Il collettivo forte impulso iniziale al conUninomade, del quale fanno parte alcuni degli autori fondersi di vita e lavoro, all’imdei contributi, proporrà, in un convegno tematico che si porsi del real-time macchinico terrà il 22 e 23 giugno a Napoli, una prima sintesi della nei ritmi del quotidiano, quasi riflessione teorica e della prassi operata dai movimenti a estensione alla (iper)metronel mutato contesto politico mediato dalle nuove tecnologie poli delle cadenze tipiche della bioipermediali. catena nella fabbrica fordista. I dispositivi del bioipermedia, G.G. - G.G. potenziando le tecnologie precedenti, sono caratterizzati da del bioipermedia, termine derivato dall’assemuna miniaturizzazione e mobilità che li mette ovunque talmente a portata di corpo da essere inblaggio di bios/biopolitica e ipermedia. dossati, un weareable computing che preannuncia Le campagne pubblicitarie ci proiettano queste il weareable network. macchine in immagine di merce-feticcio che caIn un’era di predominanza delle emozioni, l’interatterizza una nuova fase del capitalismo cognitirazione au fil du temps dei sensi con le reti divenvo. La stessa operazione fatta con l’automobile ta centrale e il device una longa manus di azioni prima e con i personal computer poi. Nemmeno remote. Esso può aumentare2 la realtà spaziale soSteve Jobs, nella sua maniacale ricerca di Forme vrapponendole informazioni d’ogni genere, o può Pure per stimolare nei suoi clienti il sentimento trasformarsi in hub delle nostre funzioni biologid’appartenenza a un’élite, poteva immaginare che che vitali. Nell’ibridazione di queste nuove maci dispositivi mobili, dopo aver stabilito record di chine germogliano sinapsi e articolazioni sempre diffusione, diventassero la sofisticata chiave della nuove, fra cui i dispositivi antropomorfi che afsocietà bioipermediatica. fiancano gli schermi: gli occhiali comunicanti di La sfera d’uso dei device impone il nuovo paraGoogle o l’iWatch di Apple ecc. Interfacce intellidigma delle applicazioni, centinaia di migliaia di genti che investono il carico sensoriale e imponapp nascono grazie alle competenze di hacker e gono un continuo supplemento d’attenzione. sviluppatori formatisi nel movimento free/libre e Il pc ha una funzione primaria di mediatore dei open source software (Floss) che appagano il deprocessi linguistici scritti, e i suoi usi più tipici siderio comune di disporre ovunque di unità sono spesso legati alla concatenazione logica del funzionali semplici. pensiero e alla gestione di sequenze e priorità che Il fenomeno delle app viene però istanziato e istisi susseguono nel tempo. Gli apparecchi mobili tuzionalizzato per la prima volta nel 2008 nelsono invece concentratori di percezione multil’App Store, un recinto virtuale in cui Apple si sensoriale complessiva degli stimoli nella loro orautorizza il diritto di vita e di morte prelevando, ganizzazione spaziale attorno al corpo e intervenfra l’altro, rendita sul lavoro della comunità degli gono nell’interpretazione emotiva. Probabilmensviluppatori.1 Apple gioca spesso sull’ambiguità te il nostro emisfero sinistro è più accaparrato dal d’una propaganda che esalta lo spirito «rivoluziolavoro al pc, mentre quello destro lo è nei continario» dell’innovazione tecnologica, come nel fanui scambi con uno smartphone. moso spot di Ridley Scott per lanciare il Macin2

eriodicamente le corporation del capitalismo tecnologico ci bombardano di annunci e lanci di nuovi dispositivi mobili a colpi di campagne promozionali da miliardi di dollari. I device, quali smartphone, tablet, ultrabook, reader e ibridi, sono gli strumenti fisici di mediazione dell’homo cognitivus con lo spazio-tempo in cui interagiscono corpi viventi, macchine, codici, dati e reti: l’ambiente

Stiamo assistendo a una svolta neurologica caratterizzata dalla tendenza a estendere ad altri campi le progressive scoperte delle neuroscienze. In questo movimento, analizzato da Anna Munster in Nerves of Data,3 si concepiscono i nuovi servizi del capitalismo digitale che usano la neuroscienza e le sue tecniche, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), tanto nello sfruttamento individuale quanto nelle strategie di governance, di business, di framing e d’influenza. Google, a cui non basta più captare i comportamenti in rete, ha reso disponibili interfacce programmatiche, le Prediction Api, per applicazioni destinate a farci conoscere «le nostre intenzioni» prima che diventino spontaneamente coscienti... In che modo entrerà in gioco la dimensione bioipermediatica in questa corsa alla gestione dell’attenzione e alla predizione dei nostri desideri? Quali impulsioni verranno trasmesse tramite occhiali, orologi e i mille altri smart-gadget in gestazione? Come l’augmented reality diminuirà capacità di attenzione e d’astrazione rimpiazzando gli obsoleti reality show? Quando ci sveleranno una coscienza modificata di noi stessi? Dietro il rischio d’una smart technology che ci istupidisca, denunciato da Carr4 e Morozov,5 si nasconde, male, l’intenzione di rendere le nuove generazioni emozionalmente fragili, impulsive e abuliche. Condizioni propizie tanto all’accettazione di sopravvivenza in un contesto di precarizzazione galoppante su sfondo d’attacco decisivo agli equilibri della biosfera, quanto all’espandersi di nuove psicopatologie. La governance neoliberale non solo sfrutta il potenziale di rendita e profitto del bioipermedia, ma, estendendo Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti, trasforma progressivamente device e gadget in strumenti per un esercizio individualizzato d’un biopotere anestetizzante e alienante. Il che spiega la furia della battaglia nell’oligopolio 2.0 per la messa in opera di recinti e procedure di captazione emozionale, semantica, finanziaria ecc. governate da potenti algoritmi come il Page Rank di Google o i sistemi dell’high frequency trading. Il primo determina l’importanza d’ogni pagina del web, mentre i secondi, che gestiscono in automatico più del 50% del trading borsistico US, sono capaci di trattare cinquemila transazioni al secondo e possono far crollare Wall Street in una decina di minuti come nel caso del flash crash del maggio 2010. Per completare il quadro i servizi marketing delle corporation delle neuroscientific information & communication technologies (Nict) inventano i comportamenti destinati a creare un mood emozionalmente favorevole nella corsa all’ultima tecnologia. Nel contempo i designer li plasmano come oggetti funzionali e attraenti, mentre i team tecnici modellano congegni hardware e ambienti software dalle potenzialità sempre più estese, ma imbrigliandoli e infarcendoli di trappole d’intercettazione d’attenzione e di valore. Benché siano tutti fondati sul Floss, vorrebbero farci credere che l’iPhone 5, Windows 8 o Android Jellybean siano meraviglie che scendono dall’Olimpo, per le quali dovremmo ringraziare gli dèi. Le meraviglie costano care e gli dèi non godono più dello stesso credito: il telefono cellulare è probabilmente l’oggetto tecnologico più diffuso nel mondo, e una parte crescente d’utenti sa cavarsela con le connessioni in rete. A partire da un certo livello una reazione a catena si innesta: l’intelligenza collettiva e la precarietà a cui sono costrette spinge le moltitudini dei digital native e di molti altri a far uso delle potenzialità di cui possono disporre. Al contrario delle automobili, o in minor misura dei pc, nei dispositivi mobili il valore d’uso non è più determinato solo nella concezione iniziale. Una volta fatte cadere le barriere imposte all’interno per imbrigliarlo, l’utente cognitivo intro-

duce valore tramite parametraggi, creazioni multimediali e applicazioni in funzione delle sue dinamiche di vita, di lavoro, dei suoi sentimenti e desideri. Anche se le caratteristiche materiali permangono, quando lo smartphone viene continuamente plasmato allora gli usi, i contenuti e addirittura le performance evolvono sino a non avere che un lontano rapporto con quelle iniziali. Il lavoro vivo dei singoli entra in relazione sulle reti per dar vita a una trasformazione continua. Una ricchezza e una forza comune che rompono continuamente i vincoli tessuti dal biopotere. Queste attività infatti non avvengono in un esclusivo rapporto individuale uomo-macchina, ma tramite le nuove forme di cooperazione della peer production, di cui troviamo descrizioni approfondite nel recente libro di Gabriella Coleman, Coding Freedom.6 Negli innumerevoli siti, blog, forum e nelle istanze del mondo hacker si concepiscono e diffondono le armi informazionali che scardinano le enclosure della governance digitale, un modo di sottrarsi e opporsi al progetto di precarizzazione e sottomissione della vita al lavoro tramite tecniche di neurocondizionamento. Le multinazionali Nict incontrano nuove e impreviste resistenze nella ricerca sistematica d’obsolescenze programmate per favorire il consumismo. A Parigi, in vicoli d’atelier asiatici degni dello scenario di Blade Runner (ancora Ridley Scott!), per qualche decina d’euro si può riparare e prolungare la vita di qualsiasi smartphone o tablet. Sta emergendo un enorme mercato di device usati che possono ancora essere mantenuti e fatti evolvere ad alto livello d’efficienza dal lavoro vivo della peer production, al di fuori dei circuiti di valorizzazione finanziaria. Mentre il movimento si contrappone collettivamente alle grandi opere inutili ed ecologicamente distruttive, basti pensare al NoTav in Italia e a Notre-Dames-des-Landes in Francia, i singoli precarizzati fanno di necessità virtù: il loro smartphone di seconda mano può essere più duttile, rapido ed efficace di quelli nuovi, irreggimentati e venduti a prezzi esorbitanti. Queste nuove competenze-macchina, per dirla con Foucault in Nascita della biopolitica,7 non sfuggono alla caccia del capitale. Sino a tempi recenti le imprese fornivano al lavoratore cognitivo i principali strumenti: un pc portatile e spesso un cellulare. Oggi sempre più spesso esse obbligano tutti a utilizzare il proprio terminale: il Byod, Bring Your Own Device, si trasforma in imperativo. Per ragioni economiche, ma soprattutto per uno sfruttamento personalizzato della produttività tramite la macchina che ciascuno ha modellato per se stesso! Allora, quando ricevete in regalo un tablet, uno smartphone ultimo modellom o un ibrido tattile, sappiate che non sarete i soli a essere contenti: sotto il regime della precarietà, «Bring Your Own Device if you want to survive»...

1. Apple percepisce il 30% su tutto ciò che è venduto sull’App Store. 2. Cfr. Augmented Reality in Wikipedia. 3. Anna Munster, Nerves of Data. The Neurological Turn in/against Networked Media, Computationalculture.net, 2011. 4. Nicolas Carr, Is Google Making Us Stupid?, in «The Atlantic Magazine», 2008. 5. Evgeny Morozov, Is Smart Making Us Dumb?, in «Wall Street Journal - Saturday Essay», 23.2.2013. 6. Gabriella Coleman, Coding Freedom. The Ethics and Aesthetics of Hacking, Princeton Unversity Press, Princeton, 2013. 7. Michel Foucault, Naissance de la biopolitique, Gallimard, Parigi, 2004, p. 235.

BIOIPERMEDIA

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Capitalismo cognitivo e vita neurale

«

Tiziana Terranova
a nostra relazione col cervello diventa sempre più fragile, sempre meno “euclidea” e attraversa piccole morti cerebrali. Il cervello diventa il nostro problema e la nostra malattia, piuttosto che il nostro potere, la nostra soluzione, o decisione.» (Gilles Deleuze)

L

spiazzano la centralità della repressione, del complesso di Edipo e dell’inconscio strutturato come un linguaggio a favore di una concezione tecnica e neurocentrica delle psicopatologie ordinarie del cervello connesso. Il carattere ordinario e normativo del piacere e del desiderio e la loro relazione con la composizoone neurochimica del cervello sono centrali a un video postato su YouTube da un giovane neuroscienziato della Stanford University, Brian

Knuston, dal suggestivo titolo Visualizzare il desiderio.5 L’esperimento, descritto come una «ricerca scientifica sul desiderio», si incentra sullo studio dell’eccitazione neurologica come chiave di lettura dei processi psicologici di anticipazione e intenzione. Avendo definito il desiderio «scientificamente» come ciò che motiva le decisioni, e l’eccitazione neuronale come «evocatore» o «segno» del desiderio, il ricercatore cerca di dimostrare come l’anticipazione di guadagnare de-

naro o di comprare qualcosa attiva la stessa regione del cervello scoperta in topi da laboratorio in un famoso esperimento del 1954 di James Millner e Peter Olds. Nell’esperimento del 1954 il tentativo da parte dei due scienziati di manipolare il comportamento del topo a distanza rivela per caso una regione subcorticale del cervello che reagisce agli stimoli piacevoli. Nel corso dell’esperimento i ricercatori permettono al topo di stimolare direttamente quest’area del cervello

La centralità dei processi cognitivi alla produzione del valore del capitalismo contemporaneo spiega forse anche la cosiddetta «svolta neurologica» identificata da Anna Munster come caratteristica del discorso contemporaneo sulla rete, una svolta che ha spiazzato la centralità delle scienze della vita e della vita artificiale nella cybercultura degli anni Novanta.1 Se il capitalismo digitale degli anni Novanta aveva investito nei poteri produttivi della vita secondo un paradigma neoevoluzionista, gli anni Duemila hanno visto invece un massiccio investimento nelle scienze del cervello e nelle tecnologie di intelligenza artificiale. Quindi, da un lato, come sottolineato da Catherine Malabou, il cervello flessibile e neuroplastico è diventata la nuova immagine del capitalismo di rete,2 mentre dall’altro lato, per Munster, la ricerca sull’intelligenza artificiale si è spostata dalla costruzione di una intelligenza macchinica simile all’umano e dallo scopo di creare una «mente» artificialmente intelligente verso applicazioni «pratiche» per l’industria e per l’esercito: «applicazioni smart» come sistemi elettronici per l’individuazione della frode, riconoscimento di volti e voci e sistemi di data mining.3 Il potere crescente della «neuro-immagine» materializzata attraverso tecnologie come la fMRI (risonanza magnetica funzionale) definisce la differenza tra il normale e il patologico sulla base dell’attività del cervello, mentre allo stesso tempo nuove ordinarie applicazioni di intelligenza artificiale espongono le nuove capacità di assemblaggi inumani di prestare attenzione ai processi immanenti ai poteri produttivi del cervello sociale.4 La definizione di cosa è una psicopatologia e la sua generalizzazione sociale si dispiega come parte di un modo di potere/sapere che concepisce la vita della psiche in termini che

INTERNET SACER
Gianluca Giannelli
Occorre secolarizzare il rapporto con Internet e la tecnologia. È questo il messaggio lanciato da Evgeny Morozov nel suo recente To Save Everything, Click Here. The Folly of Technological Solutionism, PublicAffairs, Philadelphia, 2013. Nel mondo attuale l’inefficienza è un peccato contro lo Spirito Santo, diceva Huxley. La ricerca dell’efficienza in ogni dove dell’umana esperienza riduce la complessità dell’agire a variabili numeriche da ottimizzare e a procedure da seguire. Le dinamiche umane sono assimilate a problemi computazionali ai quali trovare soluzione piuttosto che domande alle quali fornire una riposta interrogando la storia, la filosofia, la politica. Questo approccio soluzionista è una patologia intellettuale che definisce problemi in quanto tali sulla base di un unico e solo criterio: se essi siano risolvibili o meno utilizzando una tecnologia «nice and clean». Ma il soluzionismo non è figlio della rivoluzione di Internet, nonostante oggi nulla sembri poter essere pensato al di fuori o prima della sua nascita «divina» e a dispetto della concezione imperante, teologica, Internet-centrica, divenuta vera meta-narrazione di questa contemporaneità. Il soluzionismo ha radici più profonde. Esse affondano nell’illuminismo, passando per la scuola di Chicago, per poi approdare alla teoria della scelta razionale che si delinea come paradigma in senso kuhniano variamente declinato e applicato nell’economia, nella politica, nella psicologia, nelle neuroscienze, nei media studies e nello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni. È la geek generation, ormai giunta alla sua seconda generazione, a esserne divenuta l’interprete più devota e spietata grazie soprattutto al suo ingresso nel tecno-capitalismo finanziario che ne ha amplificato il potere. Soluzionismo e Internet-centrismo tuttavia non caratterizzano solo l’approccio delle lobby tecno-entusiaste, ma anche dei loro oppositori. La ricca indagine condotta da Morozov svela la concezione dell’uomo e del suo futuro insita nel modello di creazione e diffusione delle tecnologie illustrandone al tempo stesso le contraddizioni e l’inganno. Numeri e operazioni tra numeri: in questo viene convertita l’intera esperienza umana.

Algoritmizzazione, big data, gatekeeping, gamification, feticismo del numero, quantificazione del sé, semplificazione della realtà, proceduralizzazione dell’esperienza, industria del meme, compongono la cassetta degli attrezzi usata per plasmare l’individuo grazie all’apparente neutralità e pulizia dell’efficienza tecnologica, peraltro non sempre esente dagli stessi mali che si prefigge di combattere. Ma la sua indagine si rivolge anche agli oppositori e alle loro battaglie. Le azioni di Anonymous, piuttosto che del Partito pirata, o le iniziative sulla libertà e neutralità della rete piuttosto che quelle sulla privacy, sono anch’esse viziate dallo stesso falso presupposto e implicito riduzionismo semplificatore della complessità umana, finendo in alcuni casi addirittura per alimentarle. Soluzioni? Resterà deluso chi si aspetta soluzioni adeguate alla ricchezza della documentazione fornita da Morozov a sostegno della pars destruens del suo discorso. Tuttavia importanti sono le considerazioni di metodo e di approccio proposte. Occorre superare la concezione di Internet o cyberspazio come di un territorio concettuale unico che sviluppa e opera in conformità con le proprie tendenze e inclinazioni. Internet è la conseguenza, raramente la causa, del mondo che abitiamo. Internet è un insieme di tecnologie non la Tecnologia. Non si tratta quindi di rifiutare le soluzioni tecnologiche in quanto tali, ma piuttosto di mettere in discussione ogni volta e per ogni singola componente la sua idoneità come risposta agli interrogativi specifici che il vivere comune impone. Un altro modo di pensare e di parlare diventa possibile: un pensiero tecnologicamente consapevole, attento ai dettagli, ma soprattutto memore delle circostanze giuridiche ed economiche, nonché storicamente informato. Se Dio è morto, e Marx pure, è giunto il momento di uccidere anche Internet riportandola alla sua funzione di strumento da piegare al fine del miglioramento dell’individuo nella sua qualità umana così come definita storicamente, filosoficamente ed eticamente. I problemi dell’uomo non sono bug che un brillante architetto geek può risolvere ottimizzando un sistema di equazioni: essi sono l’essenza della condizione di un’umanità che migliora se stessa proprio attraverso la scelta compiuta consapevolmente di come affrontare e superare i propri limiti. E questa scelta si chiama... Politica.

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attraverso un elettrodo collegato a una leva. Il risultato è sorprendente: «Il topo continuava a stimolarsi, non si fermava. Preferiva fare questo piuttosto che dormire, mangiare, bere o fare sesso (cioè le sue funzioni biologiche basilari)». Nel caso dell’esperimento di Knuston sulla visualizzazione del desiderio, lo stimolante scelto è il denaro. Come sottolinea Knuston nel video, il denaro è un ottimo strumento sperimentale poiché non solo «motiva» la gente (per esempio a lavorare), ma anche perché è reversibile (lo puoi dare e te lo puoi riprendere) e scalabile (puoi modulare esattamente la somma coinvolta). Questo permette di mappare precisamente quelle che il ricercatore definisce come «le decisioni economiche più diffuse là fuori», cioè «investire soldi o acquistare prodotti». La ricerca dimostra che l’anticipazione di guadagnare molti soldi (relativi al reddito del soggetto sperimentale) o comprare un prodotto di un certo prezzo attiva la stessa regione del cervello che portava il topo a perdere interesse nelle sue funzioni vitali. Le conclusioni del neuroscienziato sono sorprendenti dal punto di vista della patologizzazione della vita neurale nel capitalismo cognitivo. Il comportamento del topo al quale è stato dato accesso al proprio cervello è considerato «normale» nell’operatore di borsa impegnato nel fare scelte innescate neurochimicamente dall’anticipazione di massicci guadagni futuri. Dall’altro lato, la mancanza di attivazione di questa regione è collegata direttamente a una patologia che è descritta come un tipo di comportamento antieconomico: la schizofrenia. Per Knuston gli schizofrenici soffrono di una mancanza di desiderio che include la cosiddetta sindrome dell’anedonia (l’incapacità di provare piacere). La schizofrenia è ricodificata come disordine del desiderio, un errore nei circuiti del cervello neuroeconomico normale in quanto funzionale alla scelta efficiente. La cura è chimica: la somministrazione di neurolettici «atipici» li riporta alla normalità del piacere in quanto ricompensa per un comportamento economicamente funzionale. La patologizzazione sembrerebbe riguardare dunque solo la mancanza o il rifiuto dello schizofrenico, ma ciò che è esorcizzato è anche l’eccesso costruito nel comportamento orientato alla ricompensa dei soggetti economici – il comportamento autodistruttivo del topo con l’elettrodo replicato dal comportamento dell’investitore di borsa. Questa riduzione del comportamento economico a processo neurale evade inoltre la questione fondamentale del ruolo giocato dal contagio affettivo e dalla velocità inumana delle tecnologie digitali. Come è stato recentemente sottolineato, almeno dal 2006 nei mercati finanziari si è verificata una «transizione di fase robotica» innescata da tecnologie quali l’High Frequency Trading, che ha visto «la quantità di interazioni da robot a robot che operano alla velocità di millisecondi [eccedere] quella delle interazioni umani-robot».6 Anche se il mercato è posto come il topos del sistema razionale e autoregolato, la sua razionalità è esposta in quanto dipendente dall’anticipazione, dallo sballo neurochimico del guadagno e dal potere autonomo di intelligenze artificiali fuori controllo. Il risultato dischiude l’immagine di un cervello collettivo capitalista esposto non solo alla catastrofe occasionale dell’«evento “cigno nero”, ma infestata da “piccole morti cerebrali” o frequenti episodi “cigno nero” dalla durata ultraveloce».7 Dall’altro lato è possibile vedere nella schizofrenia, o meglio in quel singolo elemento della schizofrenia identificato come patologico, cioè l’anedonia, un sintomo del rifiuto di partecipare alla riproduzione del capitalismo comunicativo? La posizione anedonica sarebbe dunque esemplificata dal crescente numero dei cosiddetti «néné», cioè quegli individui che non stanno né ricevendo un’istruzione, né hanno un impiego o svolgono altra attività lavorativa? Sembrerebbe riduttivo qui leggere queste due figure in termini di una netta opposizione. Gilles Deleuze considerava la schizofrenia come una condizione in cui una lotta si dispiega tra due poli: un esacerbato funzionamento delle macchine (un funzionamento non-organico delle macchine-organo) e una stasi catatonica, una lotta che si traduce

BIOIPERMEDIA
nel tipo di ansia specifico allo schizofrenico. Creare una opposizione binaria tra il soggetto economico normale (tradotto socialmente nella figura soggettiva dell’investitore/consumatore) e i disfunzionali e disordinati schizofrenici (traducibili socialmente come «né-né») sottovaluta il mutuo potere di contaminazione tra questi due poli in lotta: «c’è sempre quale stimolo o impulso che si insinua al cuore dello stupore catatonico, e viceversa lo stupore e la stasi rigida strisciano sempre sulle macchine-sciame».8
Versione ridotta del testo di Tiziana Terranova, «Ordinary Psychopathologies of Cognitive Capitalism», in Psychopathologies of Cognitive Capitalism, a cura di Warren Neiditch and Arne De Boever, vol. I, Archive Books, 2013.

1. Cfr. Anna Munster, Nerves of Data. The Neurological Turn in/against Networked Media, in «Computational Culture. A Journal of Software Studies», 1, http://computationalculture. net/article/nerves-of-data. 2. Cfr. Catherine Malabou, What Should We Do with Our Brain, Fordham University Press, New York, 2008. 3. Cfr. Anna Munster, «Introduction: Neuro-perception and What’s at Stake in Giving Neurology Its Nerves?», in Nerves and Perception: Motor and Sensory Experience in Neuroscience, a cura di Anna Munster, Open Humanities Press, 2011. 4. Cfr. J. Macgregor Wise, «Attention and Assemblage in a Clickable World», in Communication Matters. Materialist Approaches to Media, Mobility, and Networks, a cura di Jeremy Packer e Stephen B. Crofts Wiley, Routledge, LondraNew York, 2011. Cfr. anche Patrick Crogan, Samuel Kinsley (a cura di), Paying Attention, in «Culture Machine», 13, 2012 (http://www.culturemachine. net/index.php/cm/issue/ current), visualizzato 17.02.2013. 5. Brian Knuston, Visualizing Desire (http:// www.youtube. com/watch?feature=player_embedded&v=CUK8D-kX0fE#!) visualizzato 17.02.2013. 6. Cfr. Neil Johnson et Al., cit. in Inigo Wilkins, Bogdan Dragos, Destructive Distraction? An Ecological Study of High Frequency Trading, in «Mute», 2013 (http://www.metamute. org/editorial/articles/destructive-destruction-ecologicalstudy-high-frequency-trading), visualizzato 17.02.2013, 4. 7. Ibid. 8. Gilles Deleuze, «Schizophrenia and Society», in Two Regimes of Madness. Texts and Interviews 1975-1995, Semiotext(e), Los Angeles, 2007, p. 19.

PIEGARE LA TECNOLOGIA ALLA CREATIVITA
Superfici specchianti, gesti, forme e linguaggi non scontati La narrazione dell’Aquila in realtà aumentata
Giuliana Guazzaroni

I portoni incatenati del centro storico dell’Aquila, i palazzi disabitati e sorretti dalle impalcature, il vento che si incanala dentro gli infissi fracassati, rivelano all’occhio nudo del passante la desolazione di un luogo abbandonato dopo il sisma del 6 aprile 2009. Tuttavia i dispositivi tecnologici recenti, in particolare l’utilizzo della «realtà aumentata», possono reinventare la storia di un territorio e ricrearla con forme e linguaggi inusitati. Una particolare esperienza, iniziata il 30 giugno 2012 all’Aquila, permette al visitatore che vorrà inoltrarsi ai limiti dell’area terremotata di fatto percorribile, di raggiungere la «zona rossa» e anche, in un certo senso, superarla, potendo scrutare con i propri occhi la realtà che si presenta, mescolata a strati di realtà sintetica. Purché munito di cellulare o tablet di ultima generazione. La «realtà aumentata», applicata in questa città, ha infatti accresciuto la percezione individuale (visiva-acustica-sensoriale) con elementi virtuali, amplificando un messaggio che irrompe dalla realtà politico-sociale del luogo e dei suoi abitanti. Così che, a un portone chiuso con le catene, si sovrappongono sullo schermo dello smartphone o del tablet varie immagini, fra cui spicca un seno di donna. Metafora che denuncia la mancata ricostruzione dei centri storici della zona colpita dal terremoto. Come tutte le abitazioni delle «zone rosse», la porta chiusa con la catena e il lucchetto è simbolo del «nutrimento» per i grandi affari. Con il pretesto dell’emergenza, del recupero e della messa in sicurezza degli edifici, il governo centrale in carica durante la catastrofe ha scelto di edificare 19 new town, ovvero 19 centri abitati nuovi, denominati Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili (Case), stravolgendo storie e geografie di un territorio. Allattamento è il titolo di questa installazione in «realtà aumentata» che simboleggia il nettare che proviene dalle case sfollate e dal diritto negato di abitare laddove la vita aveva conficcato le proprie radici. Filosofia del mercato che nutre la shock economy e che vanifica l’idea e il futuro di una società, dimostrabile dalla fuga dei giovani.

Il seno nudo indica anche la seduzione che il potere esercita sulle popolazioni colpite da catastrofi. Oppure l’immagine della «testa rossa» esangue che fluttua in «realtà aumentata» a indicare la mappa del centro nevralgico della città e la fatica per riemergere. La «realtà aumentata», con gli strumenti mobili, consente pratiche creative non ammissibili altrimenti; permette, infatti, l’occupazione dematerializzata di spazi pubblici vasti o inaccessibili, come la «zona rossa», tuttora presidiata dalle camionette dei militari. D’altro canto può distrarre, sedurre o isolare dal concreto rapporto con altre realtà. L’esperienza dell’esposizione permanente di pittura digitale, visibile da giugno 2012, è un invito alla partecipazione, alla riflessione e alla riscoperta di luoghi del vissuto quotidiano, ma presi da angolature differenti. Uno slittamento continuo tra il mondo reale e quello sintetico. Una realtà mutante. Una scossa per i visitatori che vedono mescolarsi, grazie all’uso di visori see-through nel piccolo schermo mobile, scorci di un centro terremotato e non ricostruito in stretto connubio con la pittura digitale o la poesia.

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Nervi di dati
La svolta neurologica verso/contro la rete multimediale
Anna Munster

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el corso dell’ultimo anno un’idea vaga, ma con dati consistenti, ha guadagnato terreno: la «svolta neurologica» nelle teorie umanistiche e sociali, in particolare nell’analisi della ricezione delle nuove tecnologie dei media e dello schermo. La svolta neurologica consiste principalmente nel ricorso alle neuroscienze da parte di studiosi, giornalisti e commentatori di altri settori di studio, alla ricerca di dati sulle varie modalità in cui Internet, il gioco online, gli schermi in generale, i database e gli apparati informatici stanno modificando le nostre «connessioni» cerebrali. Probabilmente la svolta più conosciuta verso il ricorso alle neuroscienze è rappresentata dall’articolo del 2008 di Nicholas Carr, Is Google Making Us Stupid?,1 ampiamente discusso sia sulla carta stampata sia nella blogosfera, guadagnandosi una voce in Wikipedia.2 Osservando il cambiamento che le proprie abitudini di lettura subivano come risultato di un costante «scorrere» le informazioni e i collegamenti testuali nel testo online, Carr, nonostante debba il suo nome all’attività di giornalista-blogger, rimpiange la perdita di una qualità meditativa e profonda nel pensare il mondo: «Un tempo facevo immersioni nel mare delle parole. Adesso rimbalzo sulla superficie come fossi su una moto da acqua».3 Sebbene Carr non offra qui alcun dato neuroscientifico a supporto di queste pressanti paure sulla deriva delle sue sinapsi, cita un’altra autrice, la quale si potrebbe dire che sieda nel mezzo dello spettro di queste «svolte» neurologiche, Maryanne Wolf. Psicologa evolutiva, Wolf aveva pubblicato l’anno prima un altro volume che affrontava la questione del fallimento delle nostre capacità di pensiero e di lettura con un certo grado di profondità nell’era multimediale della superficialità.4 In seguito Carr sviluppò l’argomento nella sua opera più recente, The Shallows, con l’ausilio di dati neuroscientifici a dimostrazione dell’impatto di Internet sulla neuroanatomia.5 Immagini in vivo del cervello realizzate mentre i soggetti navigano in Internet, studi di risonanza magnetica funzionale imaging (fMRI), condotti da psichiatri altrettanto convinti dell’impatto delle tecnologie contemporanee sul nostro sitema di «connessione», sembrano offrire prove incontrovertibili di un accelerato processo di ricircuitazione.6 Questa «svolta» verso le neuroscienze ha colpito una certa generazione di studiosi di scienze umanistiche con qualche interesse alla «letteratura» e allo studio. Seppure con uno spirito leggermente diverso, anche Katherine Haley è tra le fila di coloro che lamentano una potenziale perdita di profondità nel pensiero e nella lettura.7 Da un altro punto di vista ancora, Bernard Stiegler scorge la nascita di una nuova formazione di biopetere – psicopotere –, le cui tecniche di marketing farmacologico e neurale funzionano a livello di cattura neurale della capacità di attenzione di un’intera generazione di giovani.8 Si tratta di un insieme di autori piuttosto amorfo, ma si registrano varie osservazioni, nell’analisi del mondo multimediale contemporaneo, sul crescente ricorso al campo delle neuroscienze per ottenere le prove del declino degli standard letterari e cognitivi. Geert Lovink, per esempio, ha recentemente denominato questa tendenza una

«svolta neurologica nella critica di Internet», sottolineando come ciò avvenga anche nel contesto della lingua tedesca parlata.9 Ciò fa seguito, secondo lui, a un’ossessione mediatica contemporanea intorno alla mente e alla coscienza, evidenziata da studi di neuroscienza con un uso penetrante di immagini del nostro aspetto interiore, dalla localizzazione del centro cerebrale della felicità attraverso le tecniche di fMRI, fino alla decsrizione del ruolo dei neuroni specchio negli esempi di attività cognitiva umana. Alla fine del 2011 un gruppo di neuroscienziati e ricercatori di scienza, tecnologia e filosofia hanno tenuto a Berlino un workshop per discutere la «svolta neurologica», un fenomeno che a loro avviso coinvolge una varietà di sfere sociali e culturali e che alimenta a dismisura una serie di affermazioni fatte in nome della neuroscienza.10 Come Lovink, io condivido la preoccupazione per il modo in cui l’analisi contemporanea dei media prende come riferimento le neuroscienze, utilizzando soprattutto il potere esplicativo delle immagini per provare che le nostre

rete multimediale, comprende parte di un continuum «neurale» in cui le tecniche mediatiche contemporanee sono sempre più imbricate. Questo continuum delinea un’assunzione più generale del neurale come strumento di estensione di una forma di simbiosi tra nuovi modelli di software, architettura computazionale e «soft thought». In effetti la spinta verso lo sviluppo di una «intelligenza artificiale» generale e globale, che ci accompagni e infine ci sostituisca nella ricerca online, da parte di corporazioni multimediali quali Google, costituisce altresì una svolta al neurale. Come rivelò George Dyson nel lontano 2005, dopo aver vistitato il quartier generale di Google a Mountain View, la corporazione aveva già avviato l’impresa di catturare i dati mondiali per costruire una forma di intelligenza artificiale distribuita: «Non stiamo scansionando tutti quei libri per farli leggere alle persone – spiegò una delle guide dopo la visita –. Li stiamo scansionando affiché siano letti da un’intelligenza artificiale».11 Ciò può apparire ben lontano da quelle paure di

re al desiderio di diventare struttura, architettura dell’informazione, con funzioni che si esplicano prima di pensare, cercare, agire. Questo non è tanto lo spazio cognitivo quanto il territorio del precognitivo: l’area grigia dell’«appena prima» la coscienza e l’intenzione, dove le corporazioni della rete mirano a insinuarsi sempre più. Tutte quelle mail di «noi suggeriamo», le icone «mi piace» e i dispositivi di sicurezza che dimentichiamo di attivare sono il segno dei «neurosensori» di un apparato che presto si arrogherà la capacità di dirci cosa pensiamo, dove vogliamo andare, cosa vogliamo comprare, prima che lo sappiamo noi. Dunque la svolta neurologica contro i media contemporanei potrebbe avere pochissimo impatto sulla predilezione generale dei media stessi per una crescente larghezza di banda dello spettro neurale.

menti si stanno in un modo o nell’altro «devolvendo». Credo che tale ammassamento di immagini e studi su Internet e analisi dei media richieda una maggiore attenzione. Non dovremmo discostarci totalmente dalla neuroscienza a favore di una critica, ben più ovvia, da un punto di vista sociale e politico, di Internet, del gioco online e delle tendenze dei media. Se la «svolta neurologica» nell’ambito di e contro i network multimediali è un bivio indistinto che coinvolge una vasta gamma di settori eterogenei quali le neuroscienze, le entità dei network mediatici e gli analisti dei media, è tuttavia materialmente inscritta nelle tecniche e nelle immagini della risonanza magnetica funzionale. La fMRI, con tutte le sue promesse e affermazioni, si pone come una lente in vivo, un filmato in diretta, una colonna sonora dell’attività cerebrale. In qualità di pensatori di altre discipline oltrea quella scientifica, abbiamo bisogno di una comprensione maggiore di ciò che costituisce la materialità dell’immagine neuroscientifica e di come questa materialità si relazioni con l’ubiquità del «tempo reale» dei vettori immagine mediatici, per esempio. Ma la svolta neurologica, in particolare contro la 5

una ristrutturazione del cervello ad opera di Internet. Ebbene, essa occupa una parte ristretta di uno spettro neurale che pervade la ricerca e lo sviluppo della rete multimediale. Uno spettro neurale in cui da una parte si asserisce che i media fanno marcire il cervello e dall’altra che si ha un inserimento più subdolo in cui la rete multimediale territorializza interstizialmente i circuiti di azione e pensiero. La svolta di Google da motore di ricerca a intelligenza artificiale, anticipata nel 2005 e annunciata formalmente dall’amministratore delegato Eric Schmidt nel 2010, fissa un nuovo spazio per il «soft thought».12 Google non è il solo a usare un ramo di intelligenza artificiale – nello specifico l’apprendimento delle macchine – per estrapolare linee di tendenza dai dati raccolti; il sistema di suggerimento per gli acquisti di Amazon ha già dettato il passo per la raccolta di dati che influenzano le abitudini di acquisto dei clienti. Ma nell’utilizzo di un numero di operazioni di apprendimento artificiale, in particolare nello sviluppo del nuovo Prediction Api, Google occupa una fetta crescente dello spettro neuronale. Questo lega espressamente lo sviluppo di softwa-

1. Nicholas Carr, Is Google Making Us Stupid? What the Internet Is Doing to Our Brains, in «The Atlantic Magazine», 2008. 2. Voce aggiunta a una voce relativa a Carr stesso. Cfr. Is Google Making Us Stupid?, 2008-11, Wikipedia. The Free Encyclopedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Is_Google_ Making_Us_Stupid%3F 3. Nicholas Carr, op. cit. nota 1. 4. Maryanne Wolf, Proust and the Squid. The Story and Science of the Reading Brain, Harper, Londra. 2007. 5. Nicholas Carr, The Shallows. What the Internet Is Doing to Our Brains, W.W. Norton and Co., New York, 2010. 6. Le fonti principali di Carr sono Gary Small, Gigi Vorgan, iBrain. Surviving the Technological Alteration of the Modern Mind, Harper, New York, 2009. 7. Katherine Hayles, Hyper and Deep Attention. The Generational Divide in Cognitive Modes, in «Profession», n. 13, 2007. 8. Bernard Stiegler, «Biopower, Psychopower and the Logic of the Scapegoat», in The Philosophy of Technology. A Colloquium with Bernard Stiegler, Manchester Metropolitan University, Manchester, 2008; Id., Taking Care of Youth and the Generations, Stanford University Press, Stanford, 2010. 9. Geert Lovink, MyBrain.net. The Colonization of Real-Time and Other Trends in Web 2.0, in «Eurozine», 18 marzo 2010. 10. Il workshop «Neuro Reality Check. Scrutinizing the “Neuro-turn” in the Humanities and Natural Sciences» è stato tenuto da un network principalmente di studiosi di scienze sociali e filosofi chiamato Critical Neuroscience che coinvolge ricercatori del Max Planck Institute per la Storia e la Scienza di Berlino, l’Istituto di Filosofia di Marburgo e l’Istituto di Scienze Cognitive di Osnabrück. La sua missione è di affrontare le aspettative della ricerca neuroscientifica e la pratica della critica per esaminare dove il potenziale e la promessa vengono meno o sono al di fuori delle politiche attuate, della pratica clinica, del dibattito sull’etica. Il network si estende anche a ricercatori e scienziati canadesi, americani e brasiliani. Per ulteriori informazioni su questo network si veda il sito «Critical Neuroscience», http://www.criticalneuroscience. org/ 11. Impiegato Google citato in George Dyson, Turing’s Cathedral, Edge: The Third Culture (2005), http://www. edge. org/3rd_culture/dyson05/dyson05_index.html 12. Eric Schmidt, cit. in Holman Jenkins Jr., Google and the Search for the Future, in «The Wall Street Journal - Wall Street Journal Digital Network», 14 agosto 2010.

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Smartvite / Smartcervelli
Gianluca Giannelli

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martphone, smarttv, ps4 socialgame, smartglass, smartwatch, smartcity… Benvenuti nella smartlife! Gadget intelligenti per una vita intelligente, che sfruttano le informazioni e la socialità rese disponibili dall’accesso alla rete per migliorare l’esperienza umana ampliandone le possibilità, o, come nel caso delle città, per giungere, con il sostegno di cospicui finanziamenti pubblici, a una governance partecipata della gestione delle risorse ambientali e sociali. La rete tende a inglobare la vita degli individui (catturandone e condividendone saperi ed esperienze emozionali), così come tende a inglobare fisicamente, con la disseminazione di sensori e device, il territorio urbano. Si costituisce una nuova «agorà», ma… «bioipermediale». Di recente Sergey Brin, cofondatore di Google, ha definito «castranti» gli smartphone che costringono per ore i loro utilizzatori a isolarsi dal contesto sociale per dedicarsi in solitaria al loro uso. Questa spinta all’asocialità viene corretta ora con il nuovo dispositivo smartglass (gli occhiali per la realtà aumentata di Google) già in vendita sperimentale negli Stati Uniti. Indossandoli e utilizzando i soli comandi vocali per l’attivazione delle funzioni, l’uomo e la donna «smart» potranno continuare a vivere le relazioni sociali, e con esse l’intera esperienza del mondo reale, restando contemporaneamente connessi alla rete. Analogo discorso vale per la console di videogiochi della Sony PlayStation giunta alla quarta release, ove a essere mercificata, attraverso la cattura ad opera del dispositivo e la condivisione «social», è addirittura l’esperienza stessa del gioco, il suo stesso «spettacolarizzarsi» nella liturgia secolarizzata del consumo ludico. Virtualizzazione biocognitiva tramite la rete e virtualizzazione dell’economia tramite la sua finanziarizzazione sembrano processi peculiari e connessi nell’attuale fase del capitalismo. Reti, algoritmi e regolamentazione privatistica fondata sul profitto e sull’individuo li accomunano strutturalmente. Esistenze «derivate digitalmente» generano valore al pari dei «derivati digitali» nella finanza, mentre dispositivi biopolitici assicurano assoggettamento, cattura, controllo e riproducibilità. Nanotecnologie, intelligenza artificiale, robotica, neuroscienze, ingegneria genetica, biotecnologie e stampa 3D disegneranno i frame del futuro e con essi anche lo spazio dell’immaginazione e del desiderio, ormai stratificati sull’unico scenario del reale-possibile: macchine e uomini saranno sempre più non solo connessi ma anche fisicamente vicini, «in-corporandosi» o «in-meccanizzandosi». È anch’essa recente la notizia, riportata dal «New York Times», circa la volontà dell’amministrazione Obama di avviare, dopo il Progetto Genoma Umano, il Brain Activity Map Project con l’obiettivo di studiare il funzionamento del cervello umano e costruire una mappa intelligibile delle sue attività, finalizzata alla individuazione di cause e cure delle malattie neurologiche. Dispositivi intelligenti e mappatura del cervello: convergenze… «macchiniche»? «L’uomo è e fa il proprio cervello.» Questo è, in sintesi, il risultato di decenni di scoperte nel campo delle neuroscienze. A tale conclusione si giunge esaminando una specifica proprietà del cervello, definita «plasticità cerebrale» e intesa come l’attitudine del sistema nervoso centrale, in tutte le sue componenti – neuroni, sinapsi ecc. –, a modificarsi nella propria struttura e nelle funzioni successivamente allo sviluppo, alle esperienze e ai danni subiti. La specifica esperienza individuale, ossia l’inscri-

versi nella memoria del proprio vissuto relazionale con l’ambiente, modella progressivamente il cervello facendo del singolo individuo un esemplare unico pur nella sua appartenenza al modello generale della specie umana. La modellazione cerebrale in risposta a uno stimolo ambientale non avviene, tuttavia, come semplice attuazione lineare di un programma inscritto geneticamente: i geni definiscono la struttura generale del cervello e la sua organizzazione, ma la risposta che il funzionamento neurale dà allo stimolo ambientale contiene in sé anche un momento creativo in senso proprio, un divenire «evento» rispetto a una regolarità prestabilita, inscritta nel programma genetico. L’azione creativa non si dà in modo casuale, ma, a sua volta, come conseguenza del potenziamento e depotenziamento dei circuiti sinaptici coinvolti dalla specifica esperienza ambientale. Come mostrato dall’analisi delle funzioni della memoria e dell’apprendimento, le sinapsi potenziate ingrandiscono la propria area di contatto e di permeabilità velocizzando la conduzione nervosa, al contrario di quelle depotenziate. Quando, ad esempio, si impara l’uso di uno strumento musicale, l’azione sinaptica corrispondente a un movimento errato determina il depotenziamento del circuito interessato, contribuendo altresì al potenziamento del circuito coinvolto dal movimento corretto che ingrandisce la propria area di contatto. La ripetizione e l’abitudine hanno un ruolo considerevole e la risposta di un circuito nervoso non è mai fissa. L’efficacia delle sinapsi varia, quindi, in funzione del flusso di informazioni che le attraversano, che influiscono sulla forma e sul funzionamento stesso delle reti cerebrali. Il sé «neurale» risulta pertanto una sintesi di tali processi plastici e forma primordiale di identità e soggettività, determinandosi di fatto una continuità tra il neuronale e il mentale. Mentre questa consapevolezza sul funzionamento e sulle potenzialità del cervello sembra alquanto assente nel senso comune, o per lo meno non se ne traggono le dovute conseguenze in termini di reale autocoscienza emancipatrice, essa appare al contrario guidare l’azione della governance biopolitica nella costruzione di dispositivi volti a catturare, assoggettando, la creatività e le emozioni, incanalando così l’azione della plasticità cerebrale in una direzione specifica, funzionale alle esigenze di disciplinamento dell’ordine sociale ed economico, e limitando lo sviluppo di possibilità diverse. Se è vero, come diceva Deleuze, che «il cervello è conforme al mondo moderno», ciò è vero nel senso che «il mondo moderno conforma il cervello». Cinquant’anni di esposizione prolungata alla televisione, oltre venti a computer e videogiochi, una quindicina a internet, una decina a social network e smartphone hanno lasciato certamente qualche «segno» neurale, in particolare se si considera il ruolo che il coinvolgimento emotivo e affettivo ha nel «fissare» le immagini del vissuto sulla «pellicola» della memoria. È il trasformarsi dell’uso di tali strumenti in consumo di emozioni, insito in tali dispositivi, che ne ha assicurato la diffusione crescente, inducendo bulimia emozionale svuotata di senso grazie alla quale determinare assogget6

tamento e valorizzazione economica. I nuovi palcoscenici virtuali e le scenografie di mediazione elettronica del rapporto tra uomo e ambiente plasmano così gli ambiti di attuazione dei dispositivi biopolitici, contribuendo alla definizione della cifra antropologica della contemporaneità e dei suoi conflitti. Un tempo si riteneva che dal miglioramento della società derivasse quello individuale; oggi impera la convinzione che sia la crescita individuale a determinare il miglioramento della società. Culto della personalità, della perfomance e del successo individuale, relativismo delle verità, svuotamento semantico del linguaggio attraverso la semplificazione delle relazioni tra significante e significato, depotenziamento della soggettività politica in favore di quella del consumo edonista, trasformazione del lavoro in creazione d’opera individuale, caratterizzano l’odierno individuo-performance. Dispositivi disciplinanti, come meritocrazia, legalità e giustizia, perdono anch’essi la loro connotazione sociale per assumere, oggi, forma e modalità rivendicativa dell’interesse individuale

piegato alle nuove esigenze dell’accumulazione e alla necessità di trasferire il plusvalore in rendita finanziaria. In questo scenario anche le istanze libertarie e partecipative non sembrano sempre sfuggire. Il flusso molecolare degli svariati free, open hack, della net-neutrality del net e media activism, viene sussunto dalle start-up, dal crowdsourcing, dal crowdfounding, dall’ etica hacker come spirito del capitalismo, arricchendo quel general intellect dal quale traggono contenuto innovativo, per la successiva valorizzazione, le varie Apple, Google, Facebook ecc. Occorre chiedersi se e quali siano gli spazi per una reale appropriazione di tali strumenti, attraverso la valorizzazione delle eccedenze che sfuggono alla loro cattura, sulle quali istituire pratiche del comune volte a liberare le capacità creative del cervello verso un cambiamento non mistificato e consustanziale alla trasformazione dell’uomo performante in uomo del comune. L’uomo è il proprio cervello o il proprio smartdevice? «Hacking the brain!»

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Estetiche sovversive e bioipermedia
Danila Luppino, Marco Coratolo
Per una genealogia del bioipermedia In Odyssey John Sculley parla di un dispositivo – il Knowledge Navigator – in grado di accedere a una larga rete di dati e informazioni tramite un assistente virtuale, una sorta di progenitore di Siri. Questo primo navigatore della conoscenza rappresenta un esempio perfetto di ogni interfaccia multimodale, l’archetipo stesso di ogni sistema d’interazione intermodale e, parallelamente, della sua massima ambizione: la scomparsa definitiva dell’interfaccia fisica. I ricercatori hanno iniziato a interessarsi al problema dell’interazione utente-macchina in seguito all’articolo di J.C.R. Licklider sulla simbiosi uomo-computer (1960). Già questi primi studi misero in risalto due aspetti fondamentali per lo sviluppo di ogni interfaccia: (1) il problema dell’interattività e (2) quello della ricchezza sensoriale. Il primo problema venne risolto attraverso le tecniche di time sharing, un criterio logico che riproduce su scala informatica il modello economico della divisione del lavoro di Adam Smith. Per quanto riguarda invece la ricchezza sensoriale, l’interfaccia multimodale deve saper integrare in modo efficace i diversi canali comunicativi attraverso i quali l’utilizzatore si esprime, sfruttando contemporaneamente i dispositivi I/O dell’utilizzatore e quelli della macchina. In questo modo un canale di comunicazione sensoriale può eventualmente integrare dati incompleti forniti da un altro canale. La dimensione percettiva rappresenta un accesso privilegiato all’analisi del fenomeno bioipermedia. Solo una nuova griglia concettuale può permetterci di analizzare in maniera adeguata l’infinita complessità di questo fenomeno. Questi dispositivi richiedono infatti l’attivazione costante e concomitante di diversi canali sensoriali e, allo stesso tempo, rappresentano una protesi del nostro corpo vivente, un suo prolungamento. Pensare ai rapporti individuo-dispositivo-rete in un’ottica multisensoriale1 ci consente di comprendere gli schemi percettivi che sottendono a queste dinamiche d’interazione, senza trascurare il modo in cui questo nexus percettivo ci lega al bioipermedia, modificando sensibilmente il nostro «io», la nostra coscienza e, infine, le nostre stesse vite. Non bisogna infine dimenticare il contesto originale in cui queste nuove tecnologie hanno visto la luce: pratiche di governamentalità militare, statale ed economica, di gestione dei saperi accademici, ecc. È qui che entra in gioco un’altra accezione di dispositivo, come «qualunque cosa che abbia la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (Agamben, 2006). Il bioipermedia – questo milieu interattivo ed eterogeneo di pratiche di vita, linguistiche e nonlinguistiche, di macchine e di dati – è dunque un tipo particolare di dispositivo che caratterizza la nostra contemporaneità, rispondendo a determinate urgenze biopolitiche. Alcuni slogan, come il celebre «Stay always connected», dissimulano quello che è un controllo totale e diffuso che investe in modo sempre più invasivo le nostre vite. In che modo possiamo far fronte a questa situazione? Quale strategia possiamo seguire nel nostro corpo a corpo con i dispositivi? Solo una profanazione radicale di questi dispositivi può restituire all’uomo ciò che gli era stato sottratto all’uso comune. Questa pratica di continuo svelamento dell’arcano del dispositivo è un elemento fondamentale che possiamo reperire nella maggior parte delle estetiche e delle pratiche dell’arte contemporanea. Alla ricerca di un confortevole spazio digitale e di nuove comunità virtuali, ci ritroviamo inondati da un’innumerevole quantità di spiriti «cristallizzati». Lo spazio bioipermedia è facilmente accessibile, non richiede particolari capacità e crea un impegno o un legame tra corpi distanti. Altri campi, prevalentemente elitari, diventano accessibili e modificabili da tutti tramite commenti, feedback, ranking e sharing. Nel 1934 Walter Benjamin affermava che un’opera d’arte dovrebbe attivamente permettere ai suoi spettatori di partecipare al processo di produzione della stessa. Grazie a questo sistema i consumatori diventano produttori e gli spettatori collaboratori. Oggi viviamo la stessa equazione, ma in termini meno convincenti. L’arte contemporanea è collettivamente prodotta, nonostante la proprietà ed esclusività della creazione sia dichiarata individuale e la cosiddetta «partecipazione» sia usata dal mercato come studio dello spettatore con il fine della manipolazione. L’arte e la partecipazione diventano indiscutibilmente e intrinsecamente una strategia politica. L’arte contemporanea e il corpo nudo (del re) La padronanza delle tecniche artistiche è ora tanto importante quanto la conoscenza della tecnologia e della programmazione. La tecnologia, considerata come una pratica delle arti e della mente, è uno strumento antropologico che rivela interfacce fisiche/digitali permettendo la concretizzazione di astrazioni attraverso il processo di enframing. L’artista crea attraverso l’utilizzo di strumenti digitali, facendoli intrecciare e connettere con i nostri corpi, intessendoli alla nostra carne. David Cronenberg esplora il terrore dell’uomo di fronte alla mutazione dei corpi e alla contaminazione della carne dovuta ai «dati biologici» in eXistenZ, Videodrome. L’assenza o modificazione dello spazio e del corpo cambia la topografia e la navigazione di contesti intellettuali e sociali. Stati alternati di coscienza si combinano con l’esperienza fisica per creare un terreno fertile per un nuovo stile di vita. Le collaborazioni tra le arti tradizionali, come per esempio la danza – interpretazione di un soggetto alterato in movimento –, e la tecnologia generano nuove forme d’arte. La materialità del corpo crea una nuova poetica della virtualità. È fondamentale, nell’atto dell’improvvisazione, essere connessi con la situazione, essere disponibili e percepire. Si tratta di ri-contestualizzare e ri-attualizzare una comunicazione fatta di gesti appresi nel passato, in uno spazio e tempo ipersensibile ma allo stesso tempo impermeabile. François Chaignaud e Cécilia Bengolea (ballerini): «La danza non è semplicemente un avatar estetico formale. Ogni danza rimanda a un’epoca, una cultura, un modo di pensare. La danza praticata in un club gay del quartiere jamaicano di Brooklyn non assomiglia a quella praticata all’Opéra di Parigi o alla Scala di Milano. La danza contemporanea tende ad accecarsi e a non essere più in grado di vedere i presupposti culturali che ancorano le sue radici. I gesti, la postura, il movimento sono segregati. Il ballerino percepisce la plasticità del proprio corpo come un mezzo. Non si tratta di insegnare i dialoghi delle culture, o di pretendere che tutto si equivalga, piuttosto di affilare la coscienza personale sui dispositivi che interdicono certi gesti a certi corpi. Piuttosto gioire del piacere che procura l’indebolimento di questi dispositivi». 7
Nam June Paik, Tribute to Pythagoras, 1991 (particolare). Courtesy Fondazione Mudima.

Sulla base delle configurazioni delle dimensioni fisiche e di un’esperienza di saturazione causata sul legame fusionale che si crea tra essere umano e tecnologie computerizzate: non siamo più in grado di dire dove termina il corpo digitale e dove inizia quello umano. Il virtuale diventa un’esperienza, l’artista uno spacedesigner e lo scienziato uno spacemaker in grado di creare un mondo dove l’audience interagisce direttamente. Non parliamo solo di cyberspazio oppure di realtà aumentata (augmented reality), bensì di una realtà interamente alterata digitalmente. The Raining Room è un’installazione interattiva ricreata al Barbican Museum di Londra. Si tratta di una stanza ricostruita all’interno del museo in cui viene riprodotta della pioggia, con la peculiarità che questa cade ovunque tranne che sulla persona che cammina all’interno della stanza, tutto questo grazie alle tecnologie di camera tracking e a dei codici di sviluppo openframe. Behance nasce come una piattaforma multimediale che funge da portfolio online del creativo. Essa cerca di sradicare il mondo elitario delle gallerie, creando a sua volta gallerie online, gestite da curatori online, basate su un sistema di informazioni orizzontale/democratico. Il progetto prende piede velocemente, e in poco tempo si trasforma in uno studio di massa finalizzato al mondo pubblicitario e alla ricerca di nuove tendenze artistiche da rivendere ai propri clienti, restando però nella pratica del copia-incolla, ri-dimensiona, ri-nomina veloce, e all’artista egorife-

rito in cerca di rapido riconoscimento. Le capacità del creativo che pubblica su Behance sono misurate dalla quantità di like e follower che riceve e dall’essere selezionati dai curatori online. Finalmente il creativo, ossessionato dall’avere visibilità in un mondo invisibile, si sente soddisfatto e diventa appetibile per il mondo del lavoro. Questa pratica crea un immediato confronto, ma quest’ultimo è indiretto e filtrato e, di conseguenza, spesso alterato, per non dire falsificato. L’appeal dell’essere presente in una galleria, anche se online, è talmente alto per il creativo frustrato, che ha comunque portato la piattaforma a espandersi a tal punto da essere successivamente acquistata da Adobe System. Nel 2001 il «Green Paper» pubblica Everyone Is Creative. Nasce una nuova generazione di lavoratori creativi le cui abilità non vengono incanalate nel mondo culturale, bensì in quello del business. Tramite l’illusione della libertà di espressione, ti convincono a diventare self employed, promuovendosi attraverso blog, Twitter, Facebook ecc. Una vera e propria dipendenza che non lascia più tempo per la lettura, la scrittura, la sperimentazione, l’analisi e la critica. È così che il curatore e l’artista si fondono per ritrovarsi infine nel ruolo del pr.

1. Per gli studi più recenti sull’integrazione multisensoriale si veda Spence e Ho, 2008; Albery, 2007; Cockburn e Brewster, 2005; Vitense, Jacko e Emery, 2003; Johnson, 2006.

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Confini in transito
Tecnologie digitali e performance di genere
Arianna Mainardi
All’interno di forme di ibridazione tra carne e oggetti tecnologici hanno preso corpo reti di informazione e spazi informatici che contribuiscono alla ridefinizione della relazione tra identità e tecnologia, tra tecnologia e corpo. Attraverso quale sguardo possiamo leggere le tensioni a cui l’individuo è sottoposto nel condurre un’esistenza immersa negli ambienti digitali? Nella relazione con le tecnologie digitali, tra esperienza incarnata e simulata, sono messi in gioco differenti livelli d’ibridazione che prendono forma sotto i nostri occhi nella naturalizzazione delle nuove tecnologie digitali e nel rapporto di simbiosi che stiamo sviluppando con alcuni device mobili. Un punto di osservazione efficace è offerto dalla crescente pervasività degli smartphone. Sempre più presenti nella nostra quotidianità, oltre a garantire una costante connessione alla rete e un’immersione negli ambienti digitali, gli smartphone si vanno a configurare come una nostra stessa protesi e si offrono come spazio di mediazione della vita stessa. Prende spazio un nuovo tipo di intimità sviluppata con le macchine, che si nutre anche delle suggestioni derivanti dalla spinta del settore scientifico della robotica sociale e umanoide.1 La traiettoria di ricerca in questo campo suggerisce nuovi stimoli alla riflessione sulla relazione tra informazioni e carne, tra intelligenza artificiale e corpo. Si tratta di un filone di studi che spinge più in là i confini dell’immaginario legato alla relazione tra essere umano e macchina, uno spostamento che si realizza attraverso la necessità di riconoscimento dei «bisogni relazionali» da parte delle macchine. In questo panorama contradditorio e frammentato, di quale umano e di quale macchina stiamo parlando? L’asse di riflessione postumano sviluppato dalla critica femminista contemporanea ci aiuta a definire a quale individuo ci riferiamo. Si tratta di una riflessione sull’individuo che prende definitivamente congedo dalla visione umanista del soggetto e, in relazione con il femminismo di matrice deleuziana (tra le principali esponenti la filosofa Rosi Braidotti), si esplica mettendo il corpo al centro del dibattito. Un corpo fatto di carne, che con forza riprende centralità nella riflessione, proprio quando la pervasività delle nuove tecnologie di comunicazione, che produce un assottigliamento della distanza tra corpo e protesi tecnologiche, potrebbe diversamente far supporre una sua uscita di scena. Richiamare il cyborg di Donna Haraway può fornire una iniziale chiave di lettura critica ancora attuale dell’esistente. Il cyborg è una soggettività che lascia spazio alle differenze, una soggettività che crea legami politici; si tratta di una prospettiva sull’individuo che può permettere di articolare il rapporto tra macchina e organico sulla base di una visione multipla e complessa del soggetto. In questo scenario, nella ricerca di figurazioni per soggettività alternative – «cyborg», «nomade», «mestiza» –, le riflessioni femministe si offrono come risorsa per leggere le trasformazioni e le tensioni a cui gli individui sono sottoposti nel mutevole paesaggio del postmoderno. Nella relazione con le nuove tecnologie digitali avviene il definitivo sgretolarsi di qualunque visione monolitica dei processi identitari. Il seme, il chip, il gene, il database sono le figure cyborg frutto dell’implosione di oggetti e soggetti suggerite da Haraway per insinuare le tradizionali metafore. Le riflessioni sulle tecnologie che muovono attorno al tema delle identità di genere e della sessualità possono essere una valida chiave di lettura delle ambivalenze del rapporto che instauriamo con le macchine contemporanee, non solo su un piano teorico, ma anche su un piano molto concreto di comprensione delle pratiche che in questa relazione si sviluppano. In un immaginario composto da spinte contraddittorie, le tecnologie si naturalizzano come risorse per la costruzione di processi identitari e spesso vengono piegate dagli individui alle proprie esigenze relazionali producendo una continua ridefinizione dei ruoli e dei confini tra tecnologia e umano, tra esistenza online ed esistenza offline. Le tecnologie digitali possono anche aprire varchi verso espressioni identitarie impreviste e improprie e, seppur ambivalenti e conflittuali, possono offrirsi come spazi di liberazione. Le pratiche sessuali sono state oggetto di regolazione e sorveglianza attraverso la definizione di una norma sessuale che facilitasse l’espulsione e il sanzionamento dei comportamenti fuori norma, così definiti devianti. Si tratta di un processo normativo che vede tutti i corpi al centro, un processo di regolazione all’interno del quale le tecnologie digitali possono essere anche lette come potenzialmente liberatrici da discorsi di genere oppressivi e normalizzanti. La forza della rete è quella di poter mettere in discussione quei discorsi di potere che traggono legittimazione dalla base incarnata della differenza sessuale, quelle forme di discriminazione basate sul sesso biologico. Come possono le nuove tecnologie digitali configurarsi come dispositivi capaci di sovvertire l’immaginario di genere? Lo spazio virtuale si è mostrato come un possibile palcoscenico per forme di sperimentazione e per l’opportunità di giocare con il sesso, il genere e le sue rappresentazioni. In questa prospettiva la possibilità di non dover avere nessun segno del corpo e l’assenza della voce sono gli elementi capaci di innescare processi sovversivi delle rigide costruzioni identitarie della vita «reale». In una performance virtuale delle Vns Matrix scenari fantascientifici e personaggi caricaturali abitavano uno spazio interamente digitale chiamato «Zona contestata, un terreno per la propaganda, la sovversione e la trasgressione». Vns Matrix è un collettivo femminista, tra le prime espressioni del cyber-femminismo, che già nel 1991 si inseriva provocatoriamente nella rete sovvertendo l’immaginario, giocando con le identità e performando in modo creativo il rapporto tra genere, sessualità e tecnologia. A ogni modo, non basta mettere l’accento sulla dimensione incorporea della rete per abbandonarsi a una sua lettura ottimistica. A problematizzare la relazione tra esseri umani e nuove tecnologie digitali vi è, tra le altre, la riflessione critica sul tema della sorveglianza. Nella rete i processi identitari possono costruirsi facendo ricorso a nuove e differenti risorse che potenzialmente possono produrre rappresentazioni di gender più fluide, meno forzatamente stabili e meno imbrigliate nelle maglie del binarismo sessuale. A ogni modo va considerato che l’attività online è fortemente influenzata dalla politica di spazi offline sia a livello materiale, sia a livello simbolico. Il rapporto tra tecnologie digitali e genere si costruisce in una continua relazione tra dimensioni di vita offline e dimensioni di vita online. Gli sguardi che da una prospettiva di genere interrogano la rete come dispositivo di controllo e di sorveglianza suggeriscono come la reale possibilità trasformativa proveniente dalla relazione con gli ambienti digitali dipenda in ultima istanza dalla capacità del soggetto di controllare le proprie informazioni. I corpi genderqueer (termine che si riferisce a chi non si riconosce nella normatività di genere associata al sesso biologico) mettono chiaramente in luce l’impossibilità di affrancarsi anche nel mondo online dalle categorizzazioni imposte, da quello che Gayle Rubin chiamava «sex gender system». Le identità sarebbero quindi sottoposte analogamente nella rete a simili processi normativi che si esprimono anche attraverso il controllo dei nostri dati personali. 8

Decostruendo il concetto scivoloso di identità nella prospettiva della queer theory, il ragionamento sul rapporto tra processi identitari e nuove tecnologie digitali si può nutrire di nuovi strumenti di critica, dove queer è un’opzione per andare oltre l’assimilazione. Riferendosi alla «performatività di genere» – con cui si intende la ripetizione di quei comportamenti attraverso cui i soggetti mettono in scena il proprio genere dando significato al proprio sesso – la teoria queer scardina il primato del sesso sulla costruzione del genere, ne mette in luce tutta l’instabilità e trova la via per ribaltare la norma. La messa in discussione del concetto di identità, come frutto del rapporto con la rete e con le tecnologie digitali, e le conseguenze squisitamente materiali sul nostro corpo derivanti dall’ibridazione tra carne e tecnologie, fanno parte di un medesimo discorso che fa riferimento all’idea di performatività introdotta dalla critica queer e alla possibilità di costruire nuove soggettività. Si tratta di un discorso che fa riferimento a un concetto di differenza e alterità non più incentrato su una posizione dialettica basata su opposizioni binarie, ma su processi costanti di messa in relazione – assi di differenziazione – che portano a un’ibridizzazione delle differenze. La prospettiva queer non solo può consentire di

mettere in discussione una presunta autenticità di un soggetto definito dai poteri dominanti, ma è anche il tentativo di farlo volendo incarnare nuove soggettività politiche. Seguire questo contributo per leggere la rete e il rapporto con le nuove tecnologie digitali come uno spazio di conferma o trasformazione dell’immaginario di genere, potrebbe permettere di individuare possibili nuovi varchi per la costruzione di soggettività originali.

1. Per robot sociale e umanoide si intende un robot – autonomo o semiautonomo – dotato di un volto che riproduce quello umano, costruito con l’obiettivo di interagire e comunicare con gli esseri umani attraverso regole sociali legate a un ruolo specifico.

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Internet come comune
Francesca Bria, Federico Primosig, Francesco Nachira

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nternet è il sistema nervoso globale, il motore dell’intelligenza collettiva che si è sviluppata negli ultimi trent’anni attraverso principi condivisi. Grazie a protocolli e formati aperti, al software libero, alle licenze creative common, Internet è stato concepito come un’infrastruttura aperta e in grado di far emergere dal basso la creatività e la collaborazione sociale diffusa. Nonostante ciò, durante gli ultimi anni, l’architettura aperta del web si sta trasformando in «giardini murati» controllati dai nuovi monopolisti del digitale. I nuovi conflitti sulla rete Di fronte alla crisi di legittimità delle istituzioni della modernità (in primis il sistema politico e la finanza), Internet sta diventando uno strumento essenziale per immaginare e praticare nuove forme di organizzazione, di democrazia e di attivismo sociale. Si potrebbero citare il Partito pirata in Europa e il Movimento 5 Stelle in Italia, ma soprattutto la nuova dorsale dei movimenti sociali che, utilizzando la rete, in pochi anni hanno imposto al consenso di massa ciò che fino a poco fa era inimmaginabile: da Occupy alla Primavera araba, dagli Indignados ad Anonymous e WikiLeaks e alle tante resistenze sociali, dimostrano la forte sinergia tra le forme di conflitto sociale e i modelli di organizzazione basati su Internet che mutano le forme della politica e della rappresentanza. I movimenti si organizzano online, attraverso semplici canali chat come nel caso di Anonymous, piattaforme digitali aperte collaborative come Wiki o chiuse e proprietarie come Twitter e Facebook. Dal 2011 eserciti di utenti partecipano a battaglie cruciali, come quelle su neutralità della rete, open data, copyright e privacy, sconfiggendo accordi in difesa della proprietà intellettuale come Sopa/Pipa negli Usa e Acta in Europa. Il tutto grazie alla forza inventiva della moltitudine connessa, un movimento globale animato dai tanti attivisti della rete come Aaron Swartz, che si è tolto la vita dopo essere stato condannato per aver reso accessibili online pubblicazioni accademiche protette da leggi draconiane sul copyright. La battaglia contro il copyright, per le libertà digitali, ha visto fronteggiarsi i vecchi monopolisti della conoscenza (indu-

strie dell’intrattenimento e operatori telefonici) contro gli utenti della rete appoggiati dai «Signori dell’iCloud» (Google, Facebook, Amazon in testa). È solo l’inizio di un percorso di rivendicazione della ricchezza collettiva prodotta in rete, per affermare nuovi diritti digitali, per la gestione comune delle infrastrutture critiche del futuro. Con la discussione nel Parlamento europeo della Direttiva sulla protezione dei dati, sta emergendo la consapevolezza che un processo di nuova accumulazione è in corso per gestire e controllare i dati sociali e personali. Le vite stesse degli utenti sono continuamente tracciate, raggruppate e analizzate in profili e grafici da vendere ai pubblicitari e aggregatori di dati nei «mercati dell’identità». La soggettività stessa è il cuore del processo di accumulazione, che vede nei «Signori dell’iCloud» e nei «rentier dell’intelletto generale» i nuovi padroni. I Signori dell’iCloud vs Utenti di Internet La recinzione da parte del capitale di Internet, che agli albori si stava configurando come un common, ne ha gradualmente e profondamente modificato struttura, regole di proprietà, mappa dei poteri e forme di controllo. È in corso una selvaggia ricentralizzazione e monetizzazione di dati, reti, risorse e regimi di applicazione delle leggi sulla proprietà intellettuale, con vere e proprie guerre di brevetti tra ecosistemi digitali. I margini di guadagno elevati che aziende come Google e Facebook realizzano con la pubblicità (80% del fatturato) sovvenzionano l’apertura delle loro piattaforme secondo il modello della cosiddetta «innovazione aperta», che di aperto ha solo i meccanismi di cattura. Apertura basata sulla gestione e sul coordinamento verticale di innovazione complementare, attivando una massa di sviluppatori che possono creare servizi e applicazioni a valore aggiunto sulle piattaforme, attirando così una massa critica di utenti (Facebook conta 1 miliardo di utenti, 600.000 sviluppatori con contratti esternalizzati che creano app monetizzate con il brokeraggio di Facebook, contro i 3500 dipendenti sul libro paga dell’azienda). Un pugno di oligopolisti basa il suo dominio sulla capacità di mettere al lavoro sviluppatori e

utenti «esterni» all’interno di ecosistemi digitali chiusi e proprietari, e sul possesso dei mezzi tecnici per aggregare, elaborare e analizzare le informazioni prodotte in rete dagli utenti. Piattaforme usate quindi come strumenti di comunicazione collettiva e di organizzazione per i movimenti sociali, ma simultaneamente come strumenti di cattura dell’intelligenza collettiva da parte di un capitalismo predatorio basato sulla produzione biopolitica del comune. Nuova accumulazione sui dati sociali: il «mercato dell’identità» La promessa dell’economia digitale è ancora una volta l’innovazione schumpeteriana basata sul mito dell’imprenditore di se stesso, capace di creare nel garage dei genitori una start-up che rimpiazzerà Google e Facebook, o di inserirsi nel mercato dell’identità e «commerciare» la propria reputazione e i propri dati per ricavare una parte dei profitti ora intascati solo dalle aziende Usa. La realtà è ben diversa in un’Europa dove la crisi del debito fa chiudere imprese quotidianamente e precarietà e disoccupazione giovanile dilagano. Miliardi di persone usano servizi apparentemente gratis, ma in realtà pagati dal fatto che chi li gestisce può legalmente monitorare e spiare chi li usa. L’evoluzione delle tecniche di marketing, ormai indistinguibile dalle tecniche di sorveglianza, ha come fine l’efficace manipolazione della domanda dei consumatori, acquistando un ruolo sempre più centrale nel tentativo di monitorare, catturare e controllare la soggettività stessa dei potenziali target dei loro prodotti di consumo. Monitoraggio che non va confuso con la censura. Il tentativo che si sta operando su Internet è quello di accerchiare lo spazio aperto della comunicazione e dell’espressione di soggettività autonome all’interno di uno spazio chiuso e proprietario, di catturare le relazioni che qui si sviluppano allo scopo di metterle a valore. Usando termini foucaultiani, il progetto è di fondere la localizzazione spaziale della gestione disciplinare allo spazio aperto della biopolitica con la costante richiesta di «parlare di sé», di costituirsi come soggettività, del potere pastorale. I miliardi di pensieri, sensazioni e sogni che milioni di persone «condividono» in tutto il mondo sono l’in-

contenibile ricchezza della moltitudine diventata immediatamente produttiva. La quotazione di Facebook in Borsa è un passaggio paradigmatico, un punto di non ritorno, in quanto Facebook ha come asset strategico aziendale il grafico sociale degli utenti, e la chiave della valutazione delle sue azioni nei mercati borsistici è la capacità di monetizzare l’attivazione degli utenti e le loro relazioni sociali. Facebook assomiglia dunque più a una banca del futuro che a un parco giochi. Più si forniscono dati sulla propria vita personale, più si viene ricompensati con attenzione, il che è una forte motivazione sociale per continuare a condividere informazioni e creare reputazione. Il concetto di privacy ne esce rivoluzionato, e diventa incomprensibile alle nuove generazioni che si cimentano quotidianamente nel gioco comunicativo di Facebook, e i loro dati personali diventano merce da commerciare in cambio di servizi personalizzati gratis. Gratis in cambio però del consenso a divenire tu stesso prodotto. Internet come comune di cui reclamare la ricchezza prodotta. Diviene ora necessario inventare nuove forme di conflitto e organizzazione politica che rivendichino nella produzione e condivisione del comune – di affetti e soggettività – un momento produttivo centrale che passa per un’indisponibilità a produrre valore a titolo gratuito. Quando la nostra capacità di comunicazione e di produzione collettiva viene immediatamente trasformata in valore economico dai nuovi rentier dell’intelletto comune, la questione centrale diventa come sottrarci a tutto ciò e come rivendicare una libera produzione in rete per una ricchezza equamente distribuita (ad esempio istituendo un reddito di base universale). È in corso la più grande battaglia contro le nuove enclosure e privatizzazioni della rete: alle lotte sul copyright si associano quelle contro il «mercato dell’identità», per il controllo dei dati sociali, per un web aperto e la neutralitá della rete. La rete deve rimanere spazio sociale dell’intelligenza collettiva per la produzione del comune, e quindi va riappropriata per costruire un nuovo genere di democrazia e per organizzare un welfare del comune.

SOCIAL MEDIA E LA COREOGRAFIA DEL RADUNO
Paolo Gerbaudo

I movimenti popolari dell’ondata del 2011-2012, dalla Primavera araba agli Indignados e Occupy, hanno portato alla ribalta l’uso dei social media come Facebook, Twitter e Tumblr come strumenti di comunicazione di movimento. Mentre ormai a negarlo si ostina la solita truppa di vecchi nostalgici e accademici empirei, il dibattito vero riguarda i termini del loro impatto nei processi di mobilitazione e organizzazione dei movimenti contemporanei. Che cosa ci dice la popolarità dei social media nei movimenti contemporanei? Nel mio libro Tweets and the Streets. Social Media and Contemporary Activism, pubblicato nel 2012 dall’editore inglese Pluto, sostengo che l’adozione dei social media come mezzo egemonico di comunicazione del movimento è il sintomo e al tempo stesso il fautore di una profonda trasformazione dello spazio di partecipazione politica che ci invita a buttare a mare tutta una serie di categorie che hanno dominato il dibattito su nuovi media e movimenti negli anni Novanta e primi Duemila. Invece di vedere i social media come un mezzo di costruzione di un «cyberspazio» autonomo dalla realtà materiale, dobbiamo apprezzarne il ruolo di tessitura delle pratiche di azione collettiva nello spazio urbano e in particolare delle forme di raduno che trasformano un aggregato di individui dispersi in un attore collettivo. Per usare i termini del mio libro, i social media sono divenuti gli strumenti di una «coreografia del raduno» che interviene nella concentrazione di una base sociale altamente individualizzata, come individualizzati sono profili Facebook e account Twitter, attorno a luoghi simbolici, da Piazza Tahrir a Zuccotti Park, erti a totem di un’ondata di ricomposizione sociale. L’idea di cyberspazio che ha dominato l’immaginario dei media-attivisti del periodo no-global vedeva Internet come uno spazio altro, una specie di eterotopia alla Foucault, in cui rifugiarsi dalle ristrettezze di uno spazio urbano reso sempre più inospitale dalle politiche di controllo neoliberali. In questo immaginario la comunicazione su Internet diveniva uno sdoppiamento della comunicazione di prossimità. Una realtà virtuale dentro cui si potevano costruire identità alterna-

tive e comunità di interesse e identità slegate dall’ancoraggio allo spazio di azione locale. Il tutto condensato nell’idea risibile, ma nutrita da molti insospettabili, che la protesta in piazza fosse una cosa passée o, per metterla nei termini del gruppo media-attivista Critical Art Ensemble, che le strade fossero «capitale morto», e che quindi le uniche forme di protesta efficaci fossero attacchi hacker. I social media di movimento riflettono invece una condizione dell’esperienza contemporanea in cui la comunicazione su Internet diventa sempre più un mezzo di tessitura delle nostre interazioni quotidiane, lo strumento per la gestione ed estensione della nostra esperienza di località e di partecipazione. Basta pensare all’importanza della creazione di eventi su Facebook, ad applicazioni come Doodle usate per organizzare riunioni, ai Meetup tanto amati dai grillini, per convogliare le persone interessate in un certo tema o campagna nello stesso luogo politico, o ancora ai locative media come Foursquare usati per comunicare la nostra posizione nello spazio urbano e di conseguenza i nostri gusti e le nostre affiliazioni. In questo contesto i social media diventano mezzo principe per un progetto di ricostruzione dello spazio di azione locale. Essi vengono adottati come strumenti coreografici attraverso cui creare e pubblicizzare luoghi e tempi di convergenza di basi sociali diffuse e frammentate. Il paradigma con cui dobbiamo fare i conti oggi non è quindi più quello della realtà virtuale, ma quello della cosiddetta realtà aumentata, in cui le nostre interazioni quotidiane, i nostri incontri, le nostre frequentazioni vengono coordinate sui network sociali e in cui diventa sempre più difficile distinguere online e offline, realtà reale e realtà virtuale. È in questo quadro che bisogna ripensare le forme di organizzazione di movimento e riaprire il dibattito sulle forme di direzione dell’azione collettiva, andando oltre la pretesa di assoluta spontaneità e leaderlessness che finora ha dominato il discorso degli attivisti con conseguenze deleterie per i movimenti.

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Dal feticismo delle merci al feticismo della rete
Lelio Demichelis

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al tempo di Marx molte cose sono accadute e molte si sono trasformate. Compreso il concetto di feticismo (delle merci) e di reificazione (degli uomini che diventano cose). E se il concetto di feticismo era applicato a quelle società arcaiche che attribuivano a determinati oggetti oppure a specifici animali un potere magico-religioso di natura soprannaturale e che era necessario fare proprio e in-corporare o al quale era impossibile resistere (comunque facendosene però in-corporare), oggi il feticismo si ri-modula in modo nuovo e antico allo stesso tempo. Ovvero: se il feticismo delle merci è l’evoluzione (o l’involuzione) del vecchio feticismo magico-religioso, oggi stiamo compiendo un passo in avanti (o indietro) verso una ulteriore e ben più pericolosa forma di feticismo: quello della rete come apparato tecnico, quello del macrofeticismo del dover essere connessi, alimentato a sua volta da tanti sottofeticismi e sottofeticci funzionali (feticcio-social network, iPhone, wiki, community, app). Per cui la rete – e non più le cose o gli animali, e non più le merci secondo Marx – è il baricentro della nuova attrazione feticistica che dobbiamo vivere. Attrazione che corrisponde a un autentico falso bisogno marcusiano, falso in quanto prodotto/indotto dal sistema per il proprio migliore funzionamento («con un contenuto e una funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo»), oltre che discendere da un profondissimo senso di inquietudine e di insicurezza individuale e sociale generato dalla stessa rete e dalla globalizzazione neoliberista. Una rete che ci ha in-corporati, da essa tutti noi facendoci voluttuosamente in-corporare, legandoci a essa e in essa con infiniti nodi con cui le persone si integrano a «un sistema di dipendenza omnilaterale imposta», però non più dalle cose (come credeva Marx) ma da un potentissimo e altrettanto unilaterale apparato organizzativo di natura tecnica. Questa tecnica come apparato è diventata oggi il nostro feticcio. È il mana che veneriamo ogni volta che accendiamo il pc, che entriamo in rete, che chattiamo, che blogghiamo, che corriamo ad acquistare l’ultimo iPhone. Venerando non tanto l’oggetto in sé (il pc, lo smartphone, il social network), né il concetto di merce che comunque ancora è, quanto il sistema di connessione che esprime: per cui oggi il pre-dominio su uomini e società è esercitato non dalle merci (anche) e dal capitalismo (anche), ma dalla tecnica come apparato di integrazione e di connessione che esiste e funziona solo se da un lato separa, isola, individualizza gli uomini e dall’altro li integra a sé, li connette, li lega insieme, li totalizza in sé come apparato organizzativo (e individualizzazione e totalizzazione sono i termini usati da Michel Foucault): perché questa è la logica di funzionamento di ogni apparato tecnico, sia esso catena di montaggio, consumismo oppure rete. Per cui dalla reificazione degli uomini siamo passati alla loro tecnicizzazione, di questo nostro tempo anche di feticismo d’apparato dove il dover essere connessi non produce più o non fa percepire più l’alienazione, come accadeva ai tempi di Marx e poi del fordismo-taylorismo, ma la nasconde sotto il velo della condivisione, della collaborazione, del wiki e quindi della identificazione di ciascuno con l’apparato-rete. Identificazione richiesta dall’apparato ma a cui ciascuno di noi chiede egli stesso di partecipare – è una forma gramscianamente perfetta di egemonia – per cui il dover essere connessi si traduce in un grande vantaggio per l’apparato in termini di nostra utilità e di nostra docilità (ancora Foucault) – pena la paura di essere esclusi/emarginati.

In realtà, già Marx aveva compreso che il feticismo non è tanto la sacralizzazione di determinati oggetti/merci, ma del sistema in sé. Sistema/apparato che (come ricorda Umberto Galimberti), estendendo e «generalizzando il valore di scambio, neutralizza la natura degli oggetti, per diffonderne il valore (economico). E più il sistema si fa sistematico, più il fascino del feticismo si rafforza, per l’impossibilità di accedere all’oggetto senza passare per il suo valore, che è “artificiale” (in latino: facticius, donde “feticcio” e quindi “feticismo”), perché nel feticismo a parlare non sono le cose, ma il codice che tutte le esprime perché in tutte si esprime». Se dunque il capitalismo è feticista, la sua patologia (perché il feticismo è una patologia) è simile (ancora Galimberti) «a quella del collezionista a cui non interessa la natura delle cose raccolte, ma la sistematicità dell’insieme collezionato, dove il passaggio continuo da un termine all’altro garantisce la costituzione di un mondo chiuso e invulnerabile». Ma ora si è passati appunto a una nuova fase del feticismo, quella da tecnica come apparato. Che è ancora più sistematico del capitalismo, imponendoci di accedere alla vita sociale e individuale (relazioni, comunicazioni, informazione, lavoro, divertimento, amicizia) solo passando per il suo valore di connessione/connettività, un valore tanto artificiale da essere diventato virtuale, dove a parlare e a dire non sono tanto le cose (ancora il pc o lo smartphone o l’ultima app), ma il codice (la rete) che tutte le cose tecniche esprime perché in tutte si esprime. E, allora, a valere e a produrre valore economico ma soprattutto tecnico sono appunto le connessioni, perché quanto maggiori e più forti/intense /condivise ed emozionali-relazionali esse sono (ecco il capitalismo cognitivo, il marketing emozionale-relazionale, le brand community), così maggiore e più forte è l’identificazione di ciascuno con l’apparato-rete cui deve essere connesso e quindi meglio è per l’apparato. Valore non più di uso o di scambio, ma appunto valore di connessione/totalizzazione oltre che di utilità economica e di docilità sociale (perché la condivisione – mantra della rete – esclude il conflitto, e in rete non può nascere, e infatti non è mai nato, nessun vero conflitto). La rete dunque – che è sistema, codice, valore – diventa così il vero feticcio che sa produrre un potente feticismo per sé; e l’uomo cessa di essere cosa (la vecchia reificazione) per divenire nodo (la nuova tecnicizzazione), ciascuno incapace di esistere senza essere connesso con gli altri nodi, ma connesso non per libera scelta, per socialità intrinseca e per cooperazione volontaria perché fondata su una scelta di auto-nomia (e l’auto-nomia era il sogno dell’illuminista Kant), ma perché un nuovo potere pastorale (ancora Foucault) – appunto la rete – ha assunto il potere di governamentalizzare le nostre vite, traducendole da sociali a tecniche e producendo la più grande società, meglio, comunità di massa mai realizzatasi nella storia umana. Una patologia prodotta dalla tecnica, che ci ha portati a disinteressarci della natura delle cose reali privilegiando invece la sistematicità del10

l’insieme virtuale, dove il passaggio continuo da un termine all’altro (da un nodo all’altro, da un network all’altro, da una app all’altra) garantisce la costituzione di un mondo chiuso e invulnerabile. Ed è a questo mondo che la tecnica tende. Non è dunque più la forma-merce a essere dominante e totalitaria. Totalitaria è piuttosto (riprendendo Ernst Jünger) la mobilitazione totale che la tecnica ci impone. Perché (come sosteneva Günther Anders) ormai la forma tecnica si è imposta sulle forme sociali, perché per la tecnica tutto ciò che si può fare si deve fare, perché essa vive e si riproduce nella propria logica di accrescimento continuo, avendo cessato da tempo di essere mezzo per fare e divenendo fine di ogni fare/pensare. Con un di più anch’esso evoluzione (o involuzione) rispetto al feticismo arcaico e a quello delle merci (pure sostenuto dalla moda, dall’invidia, dalla pubblicità, dalla manipolazione dei bisogni/desideri): perché questa è una rete/apparato dove il narcisismo (i blog, il profilo su Facebook) si con-fonde con il feticismo, dove il dover essere in rete si è composto con il nostro godimento narci-

sistico, la rete permettendoci di esistere godendo solo es-ponendoci in rete, mettendoci in mostra (ma molto di più che come una merce), ovvero vetrinizzandoci (Vanni Codeluppi), e di farlo in rete (è il narcisismo), in una rete che a sua volta è forza soprannaturale incarnata in se stessa come (s)oggetto di culto (è il feticismo). Per cui la rete è il feticcio che genera feticismo, ma che ci permette di diventare feticcio e feticismo di noi stessi, una volta connessi in rete (ulteriore fase di falso individualismo per una crescente identificazione con l’apparato), confermando l’altra tesi di Marcuse secondo cui la tecnica «serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli». In fondo, siamo ancora dei primitivi. Viviamo sempre di feticismo magico-religioso. Oggi però ipertecnologico.

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Alexandre Kojève Diario del filosofo a cura di Marco Filoni, traduzione di Claudia Zonghetti Nino Aragno Editore, 2013, XXIII-112 pp., € 10,00 Marco Filoni Kojève mon ami Nino Aragno Editore, 2013, 88 pp., € 8,00 Se Raymond Queneau definì Alexandre Kojève «il filosofo della domenica», non fu soltanto perché l’amico, nel 1945 divenuto alto funzionario dello Stato, diceva di potersi dedicare agli studi solo quel giorno della settimana. E neppure perché uno dei tre romanzi nei quali lo rese protagonista si intitolava La dimanche de la vie. Nel penultimo capitolo del suo Kojève mon ami Marco Filoni aggiunge un’altra sfumatura. Kojève suggerì ad Hassner, un allievo di Aron, di leggere il romanzo L’uomo che fu Giovedì di Chesterton, nel quale si viene a sapere che il capo della polizia, Domenica, è il capo segreto degli anarchici e ha ingaggiato altri sei agenti (ognuno dei quali porta il nome di un giorno della settimana) per combattere contro il loro stesso capo. Filoni è il maggior curatore dell’immagine di questo filosofo inclassificabile e ambiguo: prima con la monografia Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève (Bollati Boringhieri, 2008; trad. fr. Gallimard, 2010) e ora con Kojève mon ami, libro che incarna le figure evanescenti di Kojève nelle testimonianze dei suoi amici. Quella che era da tempo un’icona della cultura filosofica francese degli anni Trenta del Novecento si alterna e arricchisce con le immagini «private» del giovane «demone» russo nipote di Kandinskij, appassionato di Dostoevskij e Solov’ëv, dell’avventuroso fuggitivo nella Germania di Weimar, dell’affascinante retore delle lezioni hegeliane all’École Pratique des Hautes Études, del funzionario che meglio conosceva il trattato che ha regolato le relazioni commerciali fra le potenze occidentali fino al 1971. Con un’operazione parallela, il Diario del filosofo ci conduce alla riflessione «segreta» di Kojève, in questo volume pubblicata in anteprima internazionale riesumando quattro quaderni manoscritti redatti in russo. Emerge un progetto filosofico di fondo, chiaro a Kojève fin dai suoi quindici anni (il primo appunto del diario è datato 1 gennaio 1917): pensare i principi fondamentali di una filosofia dell’inesistente, sia che tale «inesistente» si riconosca in Dio (Filoni ribadisce nella sua introduzione ciò che aveva scritto altrove: «egli fu letteralmente ossessionato dall’idea di Dio»), sia che richiami una visione del nulla o che aiuti a investigare sul possibile. Essa fornisce le condizioni ontologiche preliminari per realizzare quel progetto di «antropologia filosofica atea» racchiuso in un inedito manoscritto in russo di mille pagine – Sofia. Filosofia e fenomenologia (1940-41) – che segna l’intero percorso di Kojève degli anni Trenta e Quaranta. Il Diario, risalente al periodo 1917-21, con un’appendice di fogli sparsi che arriva all’aprile 1927, unisce come un forte collante i recenti tasselli della bibliografia kojeviana (negli ultimi cinque anni ricordo L’ateismo, Quodlibet, 2008; Sostituirsi a Dio. Saggio su Solov’ëv, Medusa, 2009; Sulla tirannide, in dialogo con Leo Strauss, Adelphi, 2010; Identité et réalité dans le «Dictionnaire» de Pierre Bayle, Gallimard, 2010; La nozione di autorità, Adelphi, 2011; e Oltre la fenomenologia. Recensioni 1932-1937, Mimesis, 2012). Vi si trovano tra l’altro le prime tracce di una filosofia dell’inesistente: a partire da un pensiero scritto a Varsavia il 18 febbraio 1920, sul limine di un periodo triste e tragico che solo l’amico d’infanzia Witt, compagno dal gennaio 1920 nella fuga da Mosca, gli farà superare. Decisiva la contrapposizione tra pensiero ed essere che, se intesi come separati, sono illimitati e reali. Con una tensione dialettica che non si fatica a riconoscere come hegeliana, Kojève vede nel pensiero puro l’antitesi del pensabile, che si configura come essere illimitato, a sua volta irrisolvibile nel reale pensato, semplice «limitazione dell’illimitato». La dicotomia pensiero-essere diviene la chiave per intendere il «parallelismo metafisico dell’universo», nel quale «idea e realtà scorrono parallele senza influire l’una sull’altra», e confluisce in una visione «buddista» della realtà umana, vista come lotta dell’uomo contro il proprio corpo «in nome della rinuncia allo stesso e del non-essere». È questa la base della filosofia dell’inesistente, alla quale Kojève dedica

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o r b i e Il l s e m l e d

nel Diario altri pensieri (è il caso di quello romano del 10 agosto 1920 o di quello, tormentato, scritto a Triberg il 30 dicembre 1920) o esposizioni schematiche come le tre proposte il 6 novembre 1920 (dove stupisce l’autodefinizione di «bolscevismo in filosofia»). Negli appunti per il Saggio di filosofia della religione lo schema espositivo pone al primo punto l’«insorgere dell’idea religiosa, pensare l’inesistente», spiegato a partire dall’affermazione che essere e non-essere non esistono se non in quanto pensati e che pensare l’essere come antitesi del non-essere equivale a pensare l’esistente in contrapposizione a un inesistente. Si tratta di «definire la natura del pensiero filosofico» tramite «un tentativo di formulazione astratta della natura e del carattere di qualsivoglia pensiero che comporti la realizzazione dell’essere nell’una o nell’altra sua forma». Compito immane che condurrà Kojève anche a quell’antropologia filosofica rimasta – sulla scia di Hegel – uno dei contributi più originali della sua filosofia. Gaspare Polizzi

una volontà di sovversione «spinta fino al desiderio di morire, fino al suicidio collettivo»... Per chiudere due note: 1. La modernità politica occidentale non è solo quella sovrana e neutralizzante di Hobbes, ma anche quella materialista e tumultuaria di Machiavelli che promuove il conflitto come chiave di volta della libertà. È probabilmente in questa anomalia selvaggia e nella sua moltiplicaz,ione che si da la possibilità di sventare quel malencontre sempre in agguato. 2. Ora, se è vero che la postmodernità ha polverizzato il Leviatano, la ricerca di Clastres continua però a interrogarci dacché la sussunzione reale della vita al capitale esercita una straordinaria capacità di messa al lavoro di quella libido serviendi che occorre continuare a stanare. Ora che lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto! Nicolas Martino

Massimo Cacciari Il potere che frena Adelphi, 2013, 214 pp., € 13,00 Il katechon – chi o ciò che trattiene – è una figura enigmatica che appare nella seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo 2, 6-7, con la funzione di ritardare l’avvento dell’Anticristo. Il quale a un certo punto comunque trionferà e perverrà allo scontro con Cristo ritornato in terra, ovvio vincitore che porrà fine ai tempi. Figura enigmatica e ambigua: perché combatte il male, senza riuscire a sconfiggerlo definitivamente, e però ritarda la parousia di Gesù, assai attesa dai primi cristiani e poi rimandata sine die. La copiosa letteratura apocalittica sembra imbarazzata da questa aporia, tanto che l’esegesi di quel passo è affidata a un numero esiguo di commenti, raccolti in appendice al libro e divisi nell’assegnazione del ruolo catecontico all’Impero romano o alla stessa Chiesa come organizzazione e sacramenti. Secondo un’assennata notazione dell’illirico Vittorino di Petovio (fine III secolo), «lo Spirito Santo parla in modo confuso, anticipa l’ordine degli avvenimenti e corre fino all’ultimo tempo, per poi tornare nuovamente ai tempi che sono stati prima: presenta, infatti, un avvenimento che accadrà una sola volta come se fosse accaduto più volte». Donde le ricorrenti difficoltà per individuare sia il katechon che l’Anticristo, ancor più nel presagire l’avvento del tempo ultimo. In epoca moderna Carl Schmitt, che nella sua teologia politica ha molto insistito sul katechon assegnando tale ruolo alla rappresentanza barocca dello Stato e il ruolo dell’Anticristo allo spirito anarchico del liberalismo e del socialismo antirappresentativo, ha ammesso (nel terminale Glossarium) che per ogni momento storico esiste un katechon specifico. Lo stesso Cacciari, che pur definisce in termini leggermente diversi l’Iniquo (Anomos), ha trovato, di volta in volta con declinante pathos tragico, varie figure catecontiche: il Pci nel 1968, Montezemolo e Napolitano nel nuovo millennio. La contraddizione del katechon risulta, oltre che dall’ambivalenza della dilazione della fine, dal fatto che i suoi possibili portatori sono spinti a travalicare la funzione puramente «amministrativa» (lo Stato) per conseguire un’auctoritas epocale di spettanza della Chiesa, o viceversa (nel caso della Chiesa) a invadere le competenze statali, per esercitare in prima persona il potere effettuale. Una divisione perfetta del lavoro genera infatti, in ognuno dei due campi, un senso di impotenza. La tensione irrisolta e procrastinatoria della figura genera tali scambi e conflitti, mentre addirittura la Chiesa contiene in sé quell’eresia che poi si cristallizzerà nel trionfo provvisorio dell’Anticristo. Cacciari analizza questa dinamica con grande erudizione e finezza, così da sintetizzare il bimillenario dibattito con efficacia, malgrado i consueti manierismi linguistici. Il punto centrale dell’elaborazione sta però proprio nella differente definizione che del paolino mistero dell’iniquità offre Cacciari – in non lieve scarto da Schmitt. Il Nemico non è, come per il giurista tedesco, il comunismo anarchico (dai dolciniani alla Comune parigina, da Müntzer ai Räte monacensi e allo spartachismo berlinese), nella logica del Grande Inquisitore che tiene a bada il Cristo dostoevskiano, ma l’intera Modernità neopelagiana che si crogiola nelle differenze e rifiuta la tragica consapevolezza del peccato e la necessità della Rappresentazione, la moltitudine degli ultimi uomini di cui parlava Nietzsche dopo la morte di Dio; oggi dunque il Nuovo Ordine Mondiale del neoliberalismo, l’immanenza laicista, il culto della Rete contro quello della Croce. Prometeo, il volto esplicitamente anticristico dei totalitarismi e delle ideologie, ha ceduto il passo a Epimeteo, l’iniquità tollerante e conciliante, la crisi permanente, il subdolo placidus dell’Apocalisse. Così proprio adesso ci muoviamo fra i segni del dominio anticristico, cui ormai non riescono a opporsi Stato e Chiesa, rischiandone anzi la complicità. Augusto Illuminati

Pierre Clastres L’anarchia selvaggia. Le società senza Stato, senza fede, senza legge, senza re introduzione di Roberto Marchionatti elèuthera, 2013, 116 pp., € 12,00 «Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”.» Questa la straordinaria intuizione di Nietzsche (Così parlo Zarathustra, 1885) cara a Pierre Clastres, l’antropologo francese erede libertario di Lévi-Strauss che ha rovesciato il paradigma della filosofia politica occidentale con una serie di innovative ricerche sul campo, tese a dimostrare come la coercizione politica e lo Stato non siano il fondamento inevitabile di ogni società umana. La cultura occidentale moderna ha sempre pensato il potere come struttura verticale e gerarchica, relazione di comando e obbedienza, e conseguentemente ha pensato le società primitive come mancanti di potere politico, incomplete ed embrionali in quanto società senza Stato. In realtà non esistono società senza potere, il potere politico è universale e immanente al fatto sociale, a fare la differenza è piuttosto la declinazione coercitiva o non coercitiva del potere, e la diversa relazione che si instaura tra sfera politica e sociale. Lo studio sul campo della chieftainship amerindiana smentisce il postulato della non politicità dell’arcaico: nelle società primitive il potere appartiene al corpo sociale come unità indivisa di liberi ed eguali. Il capo invece è il depositario di un paradossale potere che non può nulla, è colui che parla a nome della società, costantemente sotto sorveglianza: la società vigila per impedire che il prestigio derivato dal privilegio della parola si trasformi in Un potere separato e trascendente, in dominio sulla società. È così che il pensiero selvaggio ci dice che «il luogo di nascita del Male, la fonte dell’infelicità, è l’Uno». E questo Uno è lo Stato, proprio come nella reductio ad unum del famoso frontespizio di Hobbes dove il corpo Uno e Sovrano del Leviatano contiene tutti i cittadini riducendoli a popolo. Società contro lo Stato, quindi, e non semplicemente senza Stato, che per esorcizzare il mostro organizza la guerra e promuove la logica centrifuga della frammentazione, ostacolo potente alla forza centripeta dell’unificazione. Hobbes ha visto chiaramente che lo Stato era contro la guerra, così la macchina da guerra primitiva è contro lo Stato e lo rende impossibile. Eppure una rottura fatale è in agguato: l’evento irrazionale della nascita dello Stato che precipita la società nella sottomissione di tutti a Uno solo. È l’enigma magistralmente indagato agli albori della modernità da La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria (in questa piccola ma preziosa antologia è compreso il saggio di Clastres sull’amico fraterno di Montaigne): «Il passaggio dalla libertà alla servitù fu senza necessità, la divisione tra chi comanda e chi obbedisce fu accidentale». Si tratta di un malencontre che ha snaturato a tal punto l’uomo da fargli perdere la memoria della sua prima condizione e il desiderio di riacquistarla. Alcune società primitive per sventare il pericolo imminente si sarebbero affidate alla seduzione della parola profetica che invitava ad abbandonare tutto per cercare la Terra senza il Male, manifestando 11

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Marco Revelli Finale di partito Einaudi, 2013, 138 pp., € 10,00 L’ironico calco beckettiano con cui Marco Revelli ha voluto titolare il suo nuovo pamphlet non fa velo all’urgenza del tema: la crisi di una delle forme più longeve dell’organizzazione della politica occidentale. La crisi conclamata e l’interminabile tramonto del partito politico sono indagati da Revelli senza nostalgie passatiste o vagheggiamenti di ripristino o restauro, ma anche senza indulgere alle facili pose della vendetta postuma o della resa dei conti. Molti dati, in avvio; una genealogia e una proposta di eziologia, nel mezzo; domande più che risposte, in coda. Certo è che il libro di Revelli non ha né il tono né il passo del lavoro del lutto (è distante anni luce, tanto per intenderci, da alcune più recenti e importanti riflessioni trontiane). In Oltre il Novecento (Einaudi, 2001) Revelli aveva disegnato e auspicato una transizione possibile in grado di condurre dalla militanza all’attivismo: analizzando quella parabola del mutamento che investiva le forme dell’impegno civico degli attori sociali e le trasformazioni delle forme di vita (e di lavoro) contemporanee di cui quel nuovo modo di «fare» politica era la traduzione (e in verità tutta la metamorfosi si giocava sul necessario indebolimento di ogni «fare»). Oggi il discorso si fa insieme più esatto e meno ottimistico. Se l’orizzonte del presente sembra essere quello di un vasto mare in cui si può solo «navigare a vista», dominato dunque dalla mancanza strutturale di «visione» e di «progetto», il soggetto collettivo deputato alla sintesi di interessi (e desideri) sociali che è stato (o avrebbe potuto essere) il partito politico è letteralmente alla deriva. Revelli mette al lavoro la genealogia dell’elitismo a dimostrare il tendenziale divenire oligarchico della forma partito e la necessaria «abrogazione» che oggi subirebbe quella che Roberto Michels chiamava, indagando in flagranti la nascita dei partiti di massa, la «ferrea legge dell’oligarchia». Il motivo che spiega tale «abrogazione» sta in quella che si potrebbe definire una fondamentale isomorfia tra le forme dell’organizzazione politica e di quella produttiva. È il divenire postfordista della politica a spiegare la fine del partito e l’urto tra la sua naturale tendenza oligarchica e la «composizione di classe» delle forme della cooperazione sociale contemporanea. Come il modo di produzione capitalistico è transitato dal regime fordista a quello postfordista, così la politica si trova immersa in un ambiente in cui domina la «leggerezza» del just in time e la snellezza dell’organizzazione catalitica. I partiti si sarebbero rivelati incapaci di dominare il passaggio d’epoca e, soprattutto, di governare lo squilibrio tra costi di transazione e di organizzazione che lo caratterizza. Rimasti legati a un tempo dell’organizzazione macchinico e fabbricocentrico, i partiti sono investiti après-coup dalle metamorfosi del capitalismo. Sono dunque le forme di vita contemporanee (i «cervelli furiosi»), che questi mutamenti hanno insieme (secondo una lezione che è tanto quella operaista quanto quella foucaultiana) prodotto e sopportato, a essere irriducibili a quella forma e a quello schema organizzativo. La crisi della forma-partito investe infatti il dispositivo cruciale della politica moderna: la rappresentanza. Una crisi che, nel riferimento al notevole programma di ricerca allestito da Pierre Rosanvallon intorno alla «controdemocrazia», è assunta con riserva. Revelli assegna infatti ai partiti il ruolo di discreti compagni di strada, di soggetti impegnati a sperimentare e praticare forme di socialità orizzontali e autorganizzate. Sembra insomma che la vita prevalga sulle forme. È tuttavia una proposta appena sbozzata, e c’è da credere che attorno al rapporto di tensione tra forme di vita e forme della politica (o istituzioni) ci sia ancora molto da dire: il dibattito e gli esperimenti attorno alla possibile costituzionalizzazione dell’autonomia delle forme della cooperazione sociale lo attestano al di là di ogni irragionevole dubbio. Michele Spanò mente sulle dinamiche della rappresentazione, Crary rivendica la necessità di intrecciare le riflessioni estetiche con l’analisi dei dibattiti filosofici e scientifici dell’epoca. Dalla teoria dei colori di Goethe alle indagini sulla persistenza retinica delle immagini, dalla rilettura in chiave fisiologica di Schopenhauer allo studio di dispositivi precinematografici come lo stereoscopio (senza dimenticare le splendide pagine sull’opera tarda di Turner), è proprio l’ampio raggio della proposta di Crary che gli permette di defamiliarizzare e riperiodizzare i discorsi sulla modernità, superando ogni falsa dicotomia tra arte alta e cultura popolare. La sua peculiare archeologia dei media smentisce implacabilmente ogni narrazione semplicistica delle magnifiche sorti e progressive della visione occidentale. In particolare viene messa in crisi la genealogia aproblematica che collega la fotografia e il cinema all’apollinea visione proposta dalla prospettiva rinascimentale. Secondo Crary non è certo la retorica del realismo a costituire il discorso dominante della modernità, che egli caratterizza piuttosto nel segno del trionfo di teorie non veridiche della visione. La nuova importanza di cui vengono investite la soggettività, l’interiorità e la fisicità ha certamente un potenziale decostruttivo e liberatorio. Questa però non è che una parte della traiettoria delineata da Crary. La visione moderna è infatti attraversata contemporaneamente da un’altra tendenza, che è insieme una conseguenza della sua corporeizzazione e il suo contrario esatto: proprio in quanto attributo del soggetto, infatti, la visione diventa ora anche qualcosa di astratto, nel senso di qualcosa che può essere misurato, calcolato e studiato. Essa diventa insomma uno strumento con cui controllare e addomesticare il soggetto, in funzione del suo incasellamento e della sua produttività all’interno del regime capitalistico. La rilevanza e il fascino del libro di Crary stanno proprio nell’analisi di questa paradossale biforcazione della visione nella modernità. Lo studioso investiga l’insopprimibile intreccio moderno tra società dello spettacolo e società della sorveglianza e ne rintraccia l’origine; allo stesso tempo, la versione sostanzialmente antireferenziale della modernità che Crary ci propone si apparenta in modo palese con la problematica del postmoderno, e illumina anche la riflessione sulla contemporaneità. Lorenzo Marmo

che aveva commissionato il progetto. Altre più recenti dispute includono il dibattito scatenato dall’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice (1975), lo scandalo dell’evasione di Herbert Kappler dal carcere di Gaeta (1977), il caso Priebke e la concomitante controversia sulla responsabilità dei partigiani per l’eccidio delle Fosse Ardeatine (1996-98), le polemiche scoppiate all’epoca dell’istituzione della legge sul Giorno della memoria (2000) circa la presunta necessità di estendere le commemorazioni a «tutte le vittime di guerra», foibe incluse, sino all’imperscrutabile decisione di situare il museo romano della Shoah (tuttora in fase di gestazione) a Villa Torlonia, of all places. E questo è solo un campione dei casi esaminati da Robert Gordon nel suo ultimo saggio dedicato alla ricezione, alla comprensione e alla rappresentazione dell’Olocausto in Italia dal dopoguerra a oggi. Incrociando una moltitudine di fonti eterogenee (discorsi istituzionali, accademici, letterari, artistici, cinematografici, giornalistici…) l’autore offre una mappatura enciclopedica – seppure non esaustiva – del campo culturale in cui si accavallano discorsi influenti, interpretazioni storiografiche, riflessioni pedagogiche e ricostruzioni spettacolari che insieme generano il «mormorio diffuso di attività culturali spesso non coordinate tra loro» di cui sono saturi i luoghi della memoria. Certo, alcune voci si levano chiare sopra il brusio: quella di Primo Levi, innanzitutto, che dagli anni Sessanta diventa «il principale mediatore della consapevolezza dell’Olocausto» in Italia, e non solo. Ma alla consacrazione di Se questo è un uomo segue la stagione del naziporno e del negazionismo, giusto per citare due abusi particolarmente scabrosi, a dimostrazione che gli interessi in gioco, quando si parla di memoria, sono i più vari e disparati. Non sorprende che l’elaborazione della Shoah sia stata, e continui a essere, materia di aspra contesa: a maggior ragione se si considera la difficoltà specificamente italiana di distillare una narrazione comune a partire da esperienze radicalmente conflittuali. Piuttosto, colpisce il carattere complessivamente gelatinoso della memoria italiana, tuttora elusiva sul tema delle responsabilità nazionali riguardo al razzismo di Stato e al consenso che lo rese possibile. In ciò l’Italia è stata assecondata dal resto del mondo occidentale, complici il Piano Marshall e lo stereotipo di un’italianità facilona ma tutto sommato inoffensiva. Gordon evita di enunciare questa tesi in modo brutale, limitandosi a suggerire che la nostra immaturità culturale sia in buona parte attribuibile alla persistenza del mito del bravo italiano e dei suoi addentellati simbolici: mostrificazione dei cattivi tedeschi, tendenza a universalizzare e a metaforizzare il genocidio, conforto del «mito della Resistenza» (sino alla sua demolizione revisionistica negli anni Ottanta e Novanta), insistenza sull’eroismo dei Giusti (come se l’onorificenza non implicasse che la maggior parte degli italiani Giusta non fu), identificazione tenace e sistematica con le vittime anziché con i persecutori. Valentina Pisanty

Gabriele D’Autilia Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi Einaudi, 2012, XXXI-429 pp., € 32,00 La consapevolezza della parzialità del punto di vista di chi scrive e interpreta la storia è un fatto di cui ognuno fa esperienza, sia che vesta i panni dell’autore, sia che si trovi nel ruolo del lettore. La presa di coscienza della mancanza di neutralità dello sguardo interessa tutti gli ambiti disciplinari, ma si rende ancora più chiara per quanti intendano occuparsi di fotografia, medium di per sé polimorfo e pervasivo, sulla cui natura esiste, come è noto, una bibliografia vastissima. Sin dalla sua prima apparizione pubblica la fotografia ha trovato applicazione nei campi più disparati dell’esistenza umana, divenendo uno strumento imprescindibile di conoscenza, un mezzo essenziale e ancora oggi insostituibile per l’autorappresentazione individuale e collettiva. Alla pluralità di usi sociali, estetici e politici della fotografia corrisponde quindi una molteplicità di prospettive da cui è possibile partire per scrivere la storia della fotografia o, per meglio dire, le storie della fotografia. Si muove da questa consapevolezza Gabriele D’Autilia, il quale ripercorre la storia d’Italia degli ultimi due secoli attraverso le immagini fotografiche che non soltanto hanno rappresentato e veicolato questa storia, ma hanno contribuito attivamente a segnarla e a determinarla. Nel fare ciò l’autore adotta una metodologia trasversale ricorrendo all’apporto di discipline come l’antropologia e la sociologia, per uscire dai modelli storiografici mutuati primariamente dalla storia dell’arte, basati sull’analisi dei singoli autori o dei generi. La fotografia non viene dunque concepita solo come prodotto da fruire esteticamente per le sue qualità formali, ma come campo di interazione tra forze diverse, da analizzare nei suoi contesti storici, sociali, economici e alla luce dello sviluppo degli altri media. Partendo da tale prospettiva D’Autilia racconta la storia della fotografia in Italia prendendo in considerazione sia gli scatti dei fotografi di mestiere – osservatori privilegiati delle vicende del nostro Paese – sia tutte quelle fotografie, nate con finalità diversissime, scattate da autori non professionisti e spesso anonimi. La fotografia di famiglia, ad esempio, si rivela un ambito di indagine prezioso per comprendere l’autonarrazione di un popolo. Legata al ricordo, alla memoria e al bisogno di autorappresentarsi, la foto di famiglia assolve importanti funzioni sociali: come ha rilevato Pierre Bourdieu in Un art moyen, volume edito nel 1965 ma ancora oggi di estremo interesse, nel rituale fotografico il gruppo si identifica, si riconosce e nel contempo si rinsalda. La fotografia di emigrazione, come sottolinea D’Autilia, può essere considerata un sottogenere di quella familiare che, seppure a lungo trascurato dalla critica, si dimostra utilissimo per comprendere i cambiamenti sociali e i nuovi rapporti gerarchici stabilitisi all’interno delle famiglie ita-

Robert S.C. Gordon Scolpitelo nei cuori L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010) traduzione di Giuliana Olivero Bollati Boringhieri, 2013, 352 pp., € 27,00 Come tutte le memorie, anche quella italiana della Shoah è funzionale alle sensibilità, alle preoccupazioni e agli interessi di chi ne detiene il controllo. E come tutte le memorie è una preziosa risorsa ideologica, uno strumento da forgiare, da impugnare e da sottrarre agli usi rivali. Non sorprende pertanto che attorno a essa infurino le più accese polemiche, come si evince dalle diatribe che sin dall’immediato dopoguerra accompagnano ogni iniziativa commemorativa della persecuzione nazifascista. La prima vertenza risale addirittura al 1946, quando nel Cimitero Monumentale di Milano fu eretto un mausoleo ai «caduti nei campi di sterminio nazisti», senza distinzioni tra i vari tipi di lager o le diverse categorie di deportati, senza accenno alle colpe fasciste, e senza elenco dei nomi delle vittime, con grave disappunto dell’Anppia (Associazione perseguitati politici italiani antifascisti)

Jonathan Crary Tecniche dell’osservatore Visione e modernità nel XIX secolo a cura di Luca Acquarelli Einaudi, 2013, 181 pp., € 22,00 Tradotto da Einaudi a più di vent’anni dalla sua pubblicazione originale negli Stati Uniti (Techniques of the Observer, MIT, 1990), quello di Jonathan Crary è un testo semplicemente fondamentale nel panorama delle riflessioni sulla cultura visuale. Lo studioso americano vi propone un’approfondita analisi delle metamorfosi della visione nella prima metà del XIX secolo: è proprio durante i primi quarant’anni dell’Ottocento che ha infatti luogo, secondo l’autore, quel cambiamento epocale nello statuto della visione che segna la svolta verso una modernità piena. Al modello della camera oscura, che aveva funzionato da perfetta metafora per la fiducia sei-settecentesca nella separazione razionale tra soggetto e oggetto, si sostituisce ora un paradigma opposto che ricolloca la visione nel corpo, con l’effetto di far entrare in crisi ogni distinzione sicura tra sensazione interna e segno esterno. Questa storia della scoperta dell’immanenza del soggetto al mondo viene tracciata da Crary con un approccio esplicitamente foucaultiano. Opponendosi a una storia dell’arte basata unica12

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liane. Le trasformazioni dei costumi del nostro paese vengono analizzate seguendo gli sviluppi del fotogiornalismo: dalle spedizioni africane dei fotografi e dei cineoperatori dell’Istituto Luce, all’uso strumentale e censorio delle immagini operato dal regime fascista, alla cronaca fotografica di Adolfo Porry Pastorel. L’analisi di D’Autilia si spinge fino alla contemporaneità, arrivando ad affrontare le questioni sociali ed estetiche legate al trapasso dal sistema analogico a quello digitale: «C’è oggi una nuova retorica – scrive D’Autilia –, quella sul digitale, considerato a volte come una delle cause di una presunta “morte” della fotografia. Di molte attività umane è stata annunciata la morte, nel corso della storia: ma la temuta perdita di significato dell’immagine a causa della sua trasformazione in bit o della sua incontrollabile moltiplicazione numerica, non può eliminare il fatto che di questo significato abbiamo bisogno». Raffaella Perna marito-mentore Ted Hughes) per ascendere a una lingua propria, fiammeggiante come sarebbe stata la poesia dell’ultima Plath (la metafora ascensionale è quella che descrive meglio il suo percorso poetico, e Ariel, il suo ultimo, scintillante libro, getta una tale luce all’indietro da illuminare il resto dell’opera di un’evidenza di assoluta compiutezza). Adesso, due fatti. In occasione del cinquantenario dalla morte, in Inghilterra esce una nuova edizione del romanzo plathiano La campana di vetro. Le vicende della giovane scrittrice di belle speranze che approda a New York e si trova di fronte allo specchio delle proprie ambizioni, incarnate in giornaliste glam e altre brillanti giovani donne degli anni Cinquanta, trova il suo corrispettivo grafico in una nuova copertina dall’aria un po’ vintage (editore Faber & Faber) in cui una di queste signorine si passa il rossetto. Scoppiano le polemiche; si discute sull’opportunità o meno di «riposizionare» un libro che per molte donne è stato un Baedeker delle tenebre della psiche su una fascia di mercato al confine con la chick-lit. Secondo: un’inchiesta del «Guardian» interroga alcune scrittrici, artiste, registe sull’eredità di Sylvia Plath. Molte di esse parlano della Campana di vetro come di un libro fondativo della loro identità di donne adulte e di intellettuali, e dalle parole di molte di loro emergono sia la consapevolezza della distanza storica – le cose sarebbero sicuramente andate in modo diverso per Sylvia, dice Jeanette Winterson, se fosse stata una giovane donna problematica e talentuosa dei nostri tempi – sia il riconoscimento di un debito; per molte venti-trentenni di oggi, infatti, leggere Sylvia Plath resta una folgorazione. Adesso Tutte le poesie di Sylvia Plath sono disponibili anche in un Oscar Mondadori a cura di Anna Ravano, corredato da un attento saggio di Seamus Heaney, che descrive il movimento verso «l’autoscoperta e l’autodefinizione» come fondante nella poesia di Plath. In questa luce le ultime, folgoranti poesie («la poesia non più come dovrebbe essere ma com’è») sarebbero innanzitutto un segnale di evoluzione verso un’identità meno parcellizzata. Questa è la tesi anche di Linda Wagner-Martin, nella sua non recentissima ma ben documentata biografia uscita da Castelvecchi. L’autrice è molto severa verso tutti i personaggi che animarono il dramma plathiano, dalla onnipresente madre al marito innegabilmente manipolatore del materiale della moglie (Ariel, il libro più importante, apparve in forma decisamente diversa da come l’aveva pensato Plath), alla poetessa stessa. Ecco, se è vero che il modello di rapporto poesia-femminile rappresentato da Sylvia Plath ci appare oggi molto datato, è anche vero che il riconoscimento dell’importanza storica della sua scrittura richiede anche di deporre l’ascia del risentimento e di leggere l’opera da una prospettiva più aggiornata. Marilena Renda così l’opera di Bachmann si riflette in quella di Ernesto De Martino e nella sua paradigmatica Terra del rimorso (1959). Il Quarto movimento del saggio, sottotitolato Il morso della creatura-artista, è dedicato a quelle figure femminili di cui si diceva e di cui, come suggerisce lo stesso studio, «Bachmann ha intessuto fili “imperdonabili” della sua biografia, riscrivendo e rivisitando le loro biografie»: in controluce, Cristina Campo. E da un lavoro basato sul concetto di strappo, ferita, scossa, morso – a sigillo della visione poetica di Bachmann e del suo Sud – piace citare un verso di una di queste fragili e potentissime figure ctonie, Gaspara Stampa: «vivere ardendo, e non sentire il male». Raffaella D’Elia

Alice Ceresa La morte del padre con Ritratto di Alice di Patrizia Zappa Mulas et al., 2013, 76 pp., € 10,00 Con la medesima precisione chirurgica de La figlia prodiga (1967) e di Bambine (1990), Alice Ceresa ha affrontato in tempi sorprendentemente lontani La morte del padre, cui ha dedicato nel 1978 un racconto lungo e meravigliosamente perfetto, oggi riproposto per le cure di Patrizia Zappa Mulas che lo accompagna con un partecipe ritratto della scrittrice. Il quale identifica con precisione il posizionamento di Ceresa: scrivere poco per scrivere l’essenziale (come la contemporanea, sua e nostra, Cristina Campo); scrivere come forma di conoscenza, di dissezione analitica di tessuti costitutivi di un corpo, pubblico e privato, sull’orlo dell’implosione simbolica (di cui le date della pubblicazione delle tre opere a firma di Ceresa costituiscono spia significativa, quasi preveggente di quanto accaduto nei decenni successivi). Ognuno dei tre testi, di difficile nominazione (romanzi? saggi in forma di narrazione?) per la voluta sottrazione ai generi della tradizione, costituisce infatti l’anticipatrice messa a fuoco di questioni che diverranno poi nodali nei tempi successivi, e che per molti versi sono ancora irrisolte. La scrittura di Ceresa le disseziona con una lama: quella di una scrittura del tutto e volutamente aliena, e che solo in virtù di questo riesce ad affrontare corpi simbolici in corso di deflagrazione. Alice Ceresa ha frequentato la tradizione letteraria europea nel suo insieme con rispetto e conoscenza profonda, ma da una posizione altra: rispetto cui i riferimenti tutti, dai racconti di Kafka fino a Henry James – evocato da Alfredo Giuliani a proposito di questo racconto –, risultano inappropriati, non perché infondati ma perché superati e fatti suoi in modo proprio e originale. Il corpo della lingua è altrettanto messo a dura prova dal plurilinguismo originario di Ceresa: ticinese di nascita (nacque a Basilea

Carla Subrizi Azioni che cambiano il mondo Donne, arte e politiche dello sguardo Postmedia Books, 2012, 256 pp., € 21,00 Si cadrebbe in errore nell’interpretare il titolo di questa raccolta di saggi come un mero riferimento alla performance di genere tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. Non è questo tipo di azione a legare, nell’analisi di Carla Subrizi, l’opera di Nancy Spero, Chantal Akerman, Hanne Darboven, Louise Bourgeois, Joan Jonas, Bruna Esposito, Eleanor Antin, Martha Rosler, Mierle Ukeles, Ottonella Mocellin, Ria Pacquée, Mary Cassatt e Gina Pane. È invece l’azione nel suo significato sia fisico che concettuale: tentativo di cambiare il mondo che non può escludere né la sperimentazione di pratiche né l’apertura di contraddizioni, anche linguistiche. Il corpo, quindi, è sì un segno al quale restituire fisicità, genere, sesso, realtà, in un tentativo di fuga (specialmente negli anni Sessanta e Settanta) dalle gabbie culturali nelle quali era stato confinato; ma è anche uno spazio di enunciazione, il luogo dell’incontro con l’osservatore: esso è talvolta presente e protagonista, nei tagli di Gina Pane in maniera più evidente; ma esiste, ed è altrettanto protagonista, nelle architetture di Louise Bourgeois, o nelle foto di Bruna Esposito. Immagini e luoghi che richiedono, o che alludono alla presenza del corpo: ciò che Subrizi definisce residuo sensibile, un «brusìo» del corpo che, pur essendo concretamente assente dall’opera vi è incluso, è embodied. Un cambiamento, questo, che ha anche una sua specificità storica nel passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, in seguito al nuovo dibattito tra artiste e critiche se l’esibizione, l’esposizione del corpo femminile nella performance, ne abbia realmente cambiato la percezione. È quindi lo stesso sguardo a divenire azione. La scelta di concentrare il proprio sguardo su un certo oggetto, o di osservarlo da un punto di vista piuttosto che da un altro, diventa strumento politico. A volte le artiste, semplicemente e intimamente, si guardano. Altre volte dirigono il proprio sguardo verso aree di marginalità: basti pensare a Semiotic of the Kitchen (1975), in cui Martha Rosler si interroga provocatoriamente sul ruolo femminile nella vita quotidiana scegliendo come proprio dizionario quello degli attrezzi da cucina; o ancora, in maniera più sintetica, D’Est (19921993) di Chantal Akerman, che indirizza la macchina da presa sui gesti più banali e autentici. Azione, corpo e sguardo sono dunque i protagonisti di questa storia dell’arte di genere, che è – di fatto – una storia parallela: diversa ed esterna al sistema dell’arte. Stella Succi

Camilla Miglio La terra del morso L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Quodlibet, 2012, 174 pp., € 22,00 È un viaggio nel Sud che segna un punto importante nella vicenda biografica e artistica di Ingeborg Bachmann, quello che emerge dalle pagine molto ben documentate del nuovo libro di Camilla Miglio, che segue il ricco saggio su Paul Celan, Vita a fronte (Quodlibet, 2005). Della scrittrice, poetessa, traduttrice nata a Klagenfurt nel 1926, e tragicamente scomparsa in un incendio nel 1973 a Roma, gli anni italiani (dal 1953 fino alla morte) possono meglio essere letti nella continuità/discontinuità rispetto al tòpos del viaggio in Italia degli autori tedeschi. Quello dell’autrice di Invocazione all’Orsa Maggiore è un calarsi in una terra devastata dalla guerra, e ascoltata nei fremiti e nei sussulti che dal sottosuolo (non solo in senso figurato) emergono a raccontare il Meridione italiano, terra sismica per eccellenza, popolata da animali pericolosi – vipere, tarantole – e da voci sotterranee. Organizzato come un vero e proprio spartito in quattro movimenti musicali, quattro frammenti testuali e sonori costituiti da tre segmenti di Invocazione all’Orsa Maggiore (1956) – La terra prima, Canti di un’isola, Apulia – e da un insieme di motivi presenti nella raccolta Non conosco mondo migliore e legati alle figure di Gaspara Stampa, Maria Callas e Eleonora Duse (ma anche a eroine come Tosca e Violetta), il libro è stratificato e complesso, e salda perfettamente i nodi esistenziali della biografia bachmanniana a quelli artistici e letterari. Ecco allora che il Nord (la Carinzia, l’Austria, Vienna), origine problematica ma mai dimenticata, viene in qualche modo abbandonato per il Sud (si allontana Paul Celan, trasferendosi a Parigi, e si avvicina Hans Werner Henze: è grazie al suo invito a Ischia che Bachmann giunge definitivamente in Italia). Camilla Miglio definisce quella che emerge dai suoi versi una «geopoetica». Nella quale si situano rituali collettivi, danze, voci, musiche, episodi tipici della cultura meridionale, tutti in qualche modo prossimi al concetto di Ruck, «scossa» violenta: che sia per «morso» di vipera o tarantola, esplosione tellurica echeggiata dal ritmico battere dei piedi durante una processione o, ancora, prodotta da una «voce da un altro secolo» come quella di Maria Callas. Il viaggio nel Meridione non può prescindere da questo choc, da questo «morso»: e

Sylvia Plath Tutte le poesie a cura di Anna Ravano, introduzione di Seamus Heaney Mondadori, 2013, 870 pp., € 18,00 Linda Wagner-Martin Sylvia Plath traduzione di Paola Pavesi Castelvecchi, 2013, 229 pp., € 22,00 Leggere Sylvia Plath a distanza di cinquant’anni dalla sua tragica morte è un’azione che deve spingere a compierne un’altra, meno direttamente legata al godimento estetico e più indirizzata alla storicizzazione della sua opera e alla comprensione di cosa, per il pubblico che siamo oggi, parli ancora e costruisca senso. Per chi, come me, abbia scoperto la poesia leggendo Sylvia Plath (era la fine degli anni Novanta, i suoi Collected Poems erano usciti nell’81, la piena valutazione della sua opera come centrale non solo all’interno della poesia confessionale ma per la poesia americana del Novecento era in corso d’opera), rileggere Plath a distanza di molti anni è praticamente un’operazione di autoarcheologia; la sua poesia suona come un oggetto che rimbalzi dal passato parlando una lingua stridente, affaticata sia dalla sofferenza psichica sia dallo sforzo di seppellire altri linguaggi (la poesia della tradizione, le ricerche accademiche del padre, la ricerca parallela del

nel 1923), ha studiato prima nelle scuole elementari tedesche, poi in quelle italiane, mentre il francese ha contrassegnato la breve stagione universitaria. La scelta dell’italiano per la scrittura – a seguito anche della permanenza a Roma dal 1950 fino alla morte, avvenuta nel 2001 – non reca apparentemente i segni di questo triplice registro: non vi è mescolanza, né il voluto, disorientante passaggio da una lingua all’altra, come nel caso di Amelia Rosselli. Al contrario, il suo è un monolinguismo apparentemente algido, innervato in una terza persona che solo in questo modo riesce a sostenere fieramente il peso della sfida della declinazione sessuata, rispetto cui «il problema dei personaggi», già a partire dalla figura della figlia prodiga, è affrontato e dispiegato proprio nell’essere lei una «persona da una parte unica e dall’altra esemplare», in virtù del suo essere figlia e figlia di famiglia. Il corpo sociale – privato e pubblico – della famiglia esplode così nella scrittura di Ceresa, come in quella di altre scrittrici e scrittori del Novecento; ma nella sua scrittura forse più che in altre si celebra – pure se con pietas – la fine dell’ordine patriarcale che ne costituisce la nervatura originaria. Si tratta di una fine preannunciata in modo sommesso ma fermo: l’esplosione della famiglia su cui si conclude il racconto La morte del padre («Allora la famiglia infine esploderà») non è oggetto di narrazione perché è storia già prevista. Ben più interessante indagarne i prodromi, le motivazioni, le metamorfosi nelle figlie, la maggiore e la minore, nel figlio,

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maschio ma non per questo sottratto allo sgretolamento e alla dissoluzione dell’ordine del padre. Racconto finissimo e definitivo, La morte del padre ci consegna intera la sfida dell’andare oltre, per inventare altre forme e altri corpi. È la strada sulla quale Alice Ceresa ci precede. Laura Fortini trasti (un po’ manierati) con i padri attaccati all’ortodossia comunista, da quello vero ai gelidi esponenti del partito; la sollecitudine intrisa di affettuosa invidia per un allievo diciassettenne insieme brioso e serio, che è il Soriano Ceccanti di lì a poco reso paraplegico dai colpi sparati dalla polizia durante gli scontri alla Bussola di Viareggio su cui si chiuse il ’68 pisano – e su cui anche il romanzo si arresta. La trama sottolinea l’inasprimento della repressione, accenna alle prime ipotesi di militanza clandestina, delinea dunque un vistoso crescendo di angoscia. Ma evita ogni morale conclusiva e anzi ogni vera conclusione, restando sospesa sul dubbio circa la possibilità di una lotta al tempo stesso protesa a una meta e continuamente capace di ridiscutersi; dubbio d’altronde affiancato da un’implicita certezza, l’impegno strenuo e appassionato nel lavoro intellettuale e didattico che scandisce tutto il percorso del protagonista, e che ha contrassegnato tutta la vita dell’autore. Clotilde Bertoni scorsivo che «non sottostà al dominio della ragione ma piuttosto comunica con la nostra interezza». Si devono a queste componenti le resistenze che una simile poetica induce in un lettore come me, di là dall’intermittente ammirazione per singoli testi difficilmente resistibili contenuti in Fuoco centrale o in Bestia di gioia: e si spiega così l’assenza più pentita, quella di Mariangela appunto, dal canone di un’antologia del 2005, Parola plurale. Eppure nessuna poesia degna di questo nome, per fortuna, si riduce alla sua poetica. Non è un caso se l’ammirazione, tanto nei confronti di Milo quanto in quelli di Mariangela, sia deflagrata – travolta ogni resistenza – solo dopo averli sentiti leggere i propri testi (vocazione e ispirazione intesi nel corpo: col respiro). In particolare questa registrazione – splendida come può essere stata solo, nella nostra lingua, quella di Carmelo Bene dei Canti Orfici – fa capire come il «testo», di un autore quale Gualtieri, non sia affatto la più o meno compiuta partitura che si legge sulla pagina: ma appunto, e soltanto, la sua stessa esecuzione. La poetica di Mariangela si conclude invocando l’«immobilità assoluta» dello spettatore, teso ad ascoltare i propri stessi polmoni (il fiato dello spettatore di Pagliarani…); ma se si produce questo miracolo (laicissimo miracolo terrestre, del tutto fisiologico), è perché a muoversi, impercettibilmente, è il corpo che emette il testo – nella sua tensione sul posto. È quello che gli attori da sempre definiscono «avere presenza», e che Eugenio Barba definiva «equilibrio di lusso». Che consiste nel sottendere, anche alla più frontale delle posture, l’incessante micromovimento dell’intera macchina muscolare. Che a quella postura dà spessore, e forza, come un effetto di vibrato anima la più semplice delle frasi musicali. Andrea Cortellessa

Rosaria Lo Russo Crolli Le Lettere, 2012, 64 pp., € 15,00 Nella prefazione alla prima raccolta di Rosaria Lo Russo, Comedia, Elio Pagliarani, non facile alle prefazioni e alle introduzioni di poeti – se ne contano poco più che le dita di una mano (e fu lui stesso a proporsi a Rosaria quando lei recitò i suoi versi a Reggio Emilia nel 1995) –, parla di «odore di corpo che percorre tutto il poema, così come si levava un forte odore di corpo agli spettacoli del Living Theater»: sottolineando la natura teatrale e vocale dei versi, la loro drammaticità e necessità. La lingua in subbuglio di Rosaria Lo Russo, dopo aver viaggiato, per dirla con Pagliarani, «dalla nascita, alla fanciullezza, alla pubertà, all’adolescenza», esprime ora un’altra stagione del corpo e la ritaglia con «le cesoiuzze e il coltellin dolente» della tradizione dell’avanguardia poetica in riduzione dell’io e compressione e contraddizione del sentimento. Si legga così la splendida sequenza delle poesie d’amore, fine d’amore, in digestiva definizione di organi esplodenti e implodenti: «ad occupare il palloncino verde bile e poi più giù / s’insedia nel sacchetto floscio della matrice dove / impreziosisce. E prende fuoco la miccia carotide, / implodono parole dalla tua bocca alla mia bocca / dello stomaco, e sgomitano». Le cose assistono al disfarsi di corpi e rapporti in ambienti domestici permeabili e penetrabili al rovinio del fuori; il dolore, protagonista nascosto e pudico di questa raccolta, è insieme pubblico e civile, segno di tempi irrimediabilmente trascorsi, e privato, segno di storie concluse e corpo trasformato. Come con amplissima scrittura e spietato vocabolario la Lo Russo sa modernamente dire. In questa caduta di anni e bagagli di storia trascorsa, la poesia si fa fortezza recuperando nella riedizione nascosta dei ritmi e dei metri – spesso doppi esametri e settenari – la sua salda etica. Le pietre della sua necessità in versi scandiscono e riaffermano il coraggio di una lingua femmina non solo capace di adoperare parole di sangue e sperma ma di saperle orchestrare in autorità di lingua e in sorveglianza di trasformazione: «Ma è l’anima / dimessa delle cose l’avvertimento della loro / dolce presenza, la dolce presenza delle cose / dismesse dà loro una luce tutta particolare. / Il respiro si fa grosso e il tempo poco, / fra creature nude di legno si spegne il focolare». Se «nessuno abita questi due corpi», una lingua insieme dolce e feroce abita questi versi e li sprigiona in canto. Cetta Petrollo

Gabriele Frasca Rimi Einaudi, 2013, 130 pp., € 11,00 Che si moduli in versi d’amore o in prose di romanzi (per tacere della produzione critica, che è tra le più ricche del panorama nazionale e va affrontata alle opere «creative», data la coerente direzione di pensiero che regge l’una e le altre), la scrittura di Gabriele Frasca è sempre una sfida. Lo è per chi la legge, come si capisce ad aprire Rimi, la raccolta che dà seguito dopo dodici anni a Rive, e a confrontarsi con un tentativo di comunicazione inavvicinabile alle strategie user friendly che da tempo dominano le scene culturali. Rimi, che certo non è «cordiale», mette però le carte in tavola già dalla prima poesia della sezione iniziale di sonetti intitolata Quevedo, esortando chi si affaccia sulla pagina a stabilire col testo una sorta di amicizia atletica, o profonda attenzione compartecipe in cui il testo istruisce il lettore (stampandogli nella mente la norma metrico-strofica del sonetto, per esempio) e il lettore assimila il testo, o vi entra e lo rimette in funzione come una pila ridà la carica a un meccanismo, e ne completa singolarmente il senso. Ma questa scrittura è una sfida anche per chi la fa, che deve riattivare una materia già formata, e modificarla con l’atto stesso di riprenderla: i venticinque sonetti della sezione sono in parte traduzioni di alcune tra le più celebri poesie quevediane, e in parte testi interamente scritti da Frasca con materiali, movenze e figure tipiche del grande poeta barocco: la corsa del tempo, l’evanescenza del presente e l’impalpabilità di passato e futuro, il senso incombente della morte, attesa e liberatoria; un eros irresistibile che è vanità e tormento. Il «tu» che apre la sezione è anche, se non sbaglio, quello di Quevedo, convocato ed esortato a lasciarsi rivivere e anche stravolgere con inserti allotrii. E un trattamento simile tocca al poeta con cui la raccolta, tripartita, si chiude: il Dylan Thomas più funereo e traumaticamente segnato dalla guerra, sottoposto dall’autore a un lavorio traduttorio e trasformativo (e quindi anche metrico, con effetti di contrapposizione e complementarità a quello operato su Quevedo: le metriche di Rimi esigono uno studio che sia alla loro altezza) che sfocia ancora una volta su una poesia «thomasiana» scritta ex novo, o quasi, da Frasca. Nel mezzo di questa cornice fortemente europea, che tiene insieme e rilancia una linea «barocca» per il nuovo secolo, ha sede il grosso della raccolta, quel Rimi che le dà il titolo. Composto di quaranta stazioni, impaginate come compatti blocchi di prosa ma formate, tranne l’ultima più breve, da cinquanta doppi endecasillabi ciascuno chiuso da un punto (l’unico segno interpuntivo della sezione), con la sintassi della frase che variamente contraria il metro, questo monstre segna una tappa decisiva nell’operare di Frasca. Nei soffocanti quadrati testuali, in cui solo la recitazione può inserire respiro – questo carattere sul piano dell’espressione è chiaramente articolato con l’ambientazione in interni quasi carcerari che tante volte si incontra sul piano del contenuto –, vediamo una piccola folla di terze persone (o non-persone, come voleva Benveniste) visitate o tormentate da voci fantasmatiche, provenienti dal passato o dal presente. Ma di più: non solo ciascuna terza persona (l’attribuzione di un sesso a queste figure linguistiche risulta sempre impossibile) sente anche la propria voce come un estraneo, un parassita; ma la stessa persona di turno (quasi tutti i comparti prevedono un punto di vista privilegiato), che dovrebbe fare almeno da contenitore, da scatola delle voci, si scopre a sua volta come nient’altro che voce o ronzio inconsistente, in un alveare senza centro alcuno che ripropone il paradosso cantoriano dell’insieme sottoinsieme di se stesso. Da dove potrà venire il bene, in questo scenario? Una risposta, forse, sta nell’ultimo romanzo di Frasca, quel Dai cancelli d’acciaio che probabilmente dobbiamo ancora cominciare a leggere. Federico Francucci

Romano Luperini L’uso della vita. 1968 Transeuropa, 2013, 144 pp., € 12,90 «L’intensità [...] a portata di mano», cifra classica degli stati d’eccezione, è il leitmotiv del nuovo libro di Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, che, come è tipico dei romanzi storici, mescola personaggi e fatti autentici ad altri immaginari o ricreati, raccontando l’anno cruciale della contestazione attraverso lo specifico focolaio dell’Università di Pisa e la vicenda di ispirazione autobiografica del giovane insegnante Marcello. E il libro risulta a sua volta singolarmente intenso: perché, diversamente da tante altre rievocazioni, non chiude l’epoca in questione nella coerenza posticcia di immagini univoche (euforica rottura dei freni, preludio della violenza terrorista), ma tende piuttosto a inseguirne – lungo una sequenza di rapidi scorci e scene serrate – le incoerenze, le contraddizioni, le fratture. Innanzitutto quelle del movimento pisano, di cui la narrazione inquadra i vari orientamenti (dai residui delle logiche partitiche ai programmi di rivoluzione immediata), riuscendo inoltre a rappresentare i dissensi tra le sue figure chiave, non tanto mediante le citazioni delle loro parole o dei loro scritti, quanto con la restituzione dei loro difformi atteggiamenti: la pacata disponibilità di Luciano Della Mea, la riflessione incessante di Fortini, accesa di trasporto e anche di collera, il dogmatismo invece calmo, e intransigente, che curiosamente accomuna due leader in erba apparentemente contrapposti, il D’Alema già politicante e il Sofri provocatorio enfant terrible. Alle dissonanze che segnano la protesta si intrecciano quelle che agitano il protagonista, turbato da nodi familiari irrisolti, diviso tra l’ebbrezza del mutamento e un persistente senso di impaccio e inquietudine, da un’esperienza all’altra: il periodo in carcere seguito a una manifestazione, di cui il testo ripercorre con toccante sobrietà (e con il lieve inciampo di un anacronismo, il giudice istruttore definito Gip) tutte le tappe, dalla completa vulnerabilità iniziale all’avvio di una straniata routine, alla solidarietà con gli altri detenuti; un legame sentimentale sia intellettualmente che eroticamente difficilissimo, eppure pieno di amore reciproco, indirizzato invano verso una scelta definitiva (l’«esco e la sposo» pronunciato in prigione con richiamo al Metello di Pratolini che, come il modello echeggiato, non si cura affatto della volontà della donna ma, diversamente da quello, dovrà poi farci i conti); i con14

Mariangela Gualtieri Sermone ai cuccioli della mia specie a cura di Carolina Talon Sampieri Teatro Valdoca, 2012, Cd di 9’ 30” con un libro di 36 pp., € 12,00 «Gustava soprattutto le cose oscure», Il poeta di sette anni di Rimbaud: mentre dall’abisso remotissimo dei «miei favolosi sette anni» si rivolge a un Chiaro senza aloni, a un’Illuminazione Piena – divenuta «quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande» – la voce che tiene il Sermone ai cuccioli della mia specie. Quello fra i propri testi, cioè (pubblicato su carta, nel 2006, presso L’Arboreto), che Mariangela Gualtieri ha scelto per finalmente iniziare a pubblicare (in un oltremodo curato, coloratissimo astuccio stampato su carta pesante) la propria poesia nella forma che più le è appropriata: quella fonografica. L’ironia del precedente viene resecata con decisione da Mariangela, che sottopone alla medesima potatura anche altri ipotesti con ogni probabilità tenuti presenti: dal «Cari cuccioli» dell’apostrofe iniziale, a più riprese ripetuta nel prosieguo (l’anafora essendo senz’altro la figura che più contrassegna il suo temperamento), che echeggia il «Cari piccoli» del Fortini più sarcastico, in Composita solvantur («Grande fosforo imperiale, fanne cenere»), all’appello conclusivo – «Nascete ancora, cuccioli. Restate. / Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. / Siate» – che dall’ode Al mondo, nella Beltà di Zanzotto («Mondo, sii, e buono; […] / su bravo, esisti»), reseca appunto l’ironia sulfurea in explicit («Su, bello, su. / Su, münchhausen»). L’unica citazione accolta in pieno è dal maestro più diretto, il Milo De Angelis di Millimetri («molto piano, millimetro dopo millimetro, / in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano / sono passata di là»): perché appunto da lui, dopo i Fortini e gli Zanzotto, viene il rifiuto di ogni obliquità ironica in nome di una parola «giurata» e, per quanto oscura, frontale. La poetica di Mariangela è ben riassunta dal suo intervento sullo scorso numero 27 di «alfabeta2». Un testo in cui risuonano parole consapevolmente inattuali come «sublime» e «trasfigurazione», «ebbrezza del sacro», «vocazione e ispirazione»: in un regime di-

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Gli artisti di alfabeta2
Agostino Bonalumi: artista europeo
Intervista a Francesca Pola a cura di Stella Succi
Lei sta scrivendo un libro monografico su Agostino Bonalumi che sarà pubblicato il prossimo autunno: come è nato, e su cosa stanno vertendo in particolare le sue ricerche? Il libro nasce come progetto specificamente dedicato all’opera di Bonalumi negli anni Sessanta e primi Settanta: l’occasione della sua uscita sarà la mostra, anch’essa in preparazione e a mia cura come il libro, dedicata a questo fondamentale periodo dell’opera dell’artista, uno dei grandi protagonisti della neoavanguardia europea, che si terrà alla galleria Robilant + Voena nella sua sede londinese. La pubblicazione non sarà un semplice catalogo della mostra: grazie alla diretta e fattiva collaborazione dell’artista e del suo archivio, oltre che all’impegno attivo della galleria in questo senso, è stato possibile concepire un esteso libro monografico che cerca di offrire una chiave di lettura nuova del lavoro di Bonalumi in quei decenni, anche attraverso una vasta documentazione di contestualizzazione internazionale. Oltre ai lavori in mostra il libro includerà tutta una serie di opere storiche, soprattutto presenti nelle collezioni di importanti musei in tutto il mondo, e una estesa documentazione – in parte inedita – relativa alle relazioni di Bonalumi con il contesto della neoavanguardia europea, a partire dai suoi compagni di strada italiani, come Piero Manzoni o Enrico Castellani. Quali modalità di lavoro sta adottando nella costruzione di questo libro? La ricerca si svolge su più piani paralleli, e sempre in ogni caso in un rapporto molto stretto con Bonalumi, il quale è artista tuttora molto attivo e, nonostante il suo costante impegno profuso nel lavoro, è molto generoso nel mettersi in dialogo con me rispetto al suo percorso storico. La costruzione di questo libro è stata da subito pensata, come la mostra che si terrà a Londra, come uno sguardo retrospettivo sulla sua opera, in sintonia con la visione che Bonalumi stesso ha del proprio lavoro, ricostruendone anche le ragioni teoriche accanto a quelle storiche. Nel libro saranno infatti raccolti anche alcuni suoi significativi scritti di quegli anni, molti dei quali tradotti per la prima volta e così resi finalmente accessibili al pubblico internazionale; e sarà presente una lunga intervista che stiamo realizzando in queste settimane. Uno dei fulcri che guidano la costruzione dell’intero progetto è la ricerca, precoce e amplissima, che Bonalumi ha sviluppato sperimentando materiali eterogenei, non ortodossi, anticanonici, industriali, diversificati: è questo tipo di indagine che connota molto presto il suo lavoro, e lo individua proprio nel suo procedere creativo di quegli anni, in una direzione che lo accompagna sino a oggi e che lo rende uno dei precursori di molte ricerche sulla percezione sensoriale dei decenni successivi (penso, ad esempio, a tanta scultura inglese che dopo gli anni Sessanta ha lavorato in questa direzione). In concomitanza con l’uscita del libro, ai primi di ottobre verrà inaugurata la mostra di Bonalumi presso Robilant + Voena, la seconda mostra dell’artista a Londra oltre cinquant’anni dopo la personale tenutavi nel 1960. Che importanza ha avuto quella prima e precoce mostra personale di Bonalumi nel contesto internazionale? La personale del 1960 a Londra si tenne al New Vision Center, uno dei luoghi sperimentali della neoavanguardia europea, che nell’arco dei primissimi anni Sessanta presentò nei suoi spazi altri autori emergenti, come il gruppo Nul olandese, Manzoni e Castellani, i tedeschi di Zero. Si tratta di uno dei numerosi episodi significativi, di una cronologia molto precoce, che documentano le strettissime relazioni di Bonalumi con un circuito internazionale di diffusione e di ricerca creativa che si muoveva secondo strategie anticanoniche, spazi autogestiti dagli artisti stessi, che stava costituendo, insomma, un nuovo sistema di fare arte, non solo attraverso le opere ma anche attraverso le riviste e altri strumenti di comunicazione. Il fatto che idealmente il libro e la mostra, presentati insieme proprio a Londra, si riconnettano a questo momento germinale di costituzione di una nuova generazione artistica europea non fa che confermare la «precoce attualità» di una ricerca, quella di Bonalumi, che oggi ci si ripresenta in tutta la sua flagrante contemporaneità. Francesca Pola, Agostino Bonalumi. All the Shapes of Space, di prossima pubblicazione. Agostino Bonalumi, Robilant + Voena, Londra, 4 ottobre 15 novembre 2013.

Immagini come parole: i Ricalchi di Renato Mambor
Raffaella Perna

L’Argento di Giosetta Fioroni
Stella Succi
Il 4 aprile si è inaugurata, presso il Drawing Center di New York, L’Argento: la prima mostra monografica in territorio statunitense di Giosetta Fioroni, destinata a trasferirsi poi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nell’autunno del 2013. La curatrice, Claire Gilman, ha selezionato infatti come nucleo centrale della rassegna le opere del cosiddetto «periodo argento», in riferimento al colore della pittura di smalto prediletta dall’artista. Il percorso si dispiega a partire dal gruppo di monocromi datati tra il 1959 e il 1961, che prefigurano i numerosi dipinti e disegni del periodo 1963-1970 e i venti paesaggi argentati dei primi anni Settanta esposti nella Main Gallery: il minimalismo lirico di queste opere ha ispirato famosi pensatori italiani come Goffredo Parise, Vittorio Gregotti e Alberto Moravia. La mostra comprende inoltre: alcuni disegni della fine degli anni Cinquanta, nei quali oscure notazioni affiancano simboli riconoscibili, tracciati a pastello e china; tre film dell’artista, ospitati nello spazio The Lab; tavole e libri illustrati ispirati al mondo del teatro, della letteratura, delle fiabe per bambini; infine un nucleo di materiale documentario riguardante l’attività performativa di Giosetta Fioroni. I disegni dell’artista traggono spunto dalla cartellonistica cinematografica, dalle riviste illustrate, dalle foto di famiglia; ma il fondamento del suo lavoro va ricercato, a detta di lei stessa, nel teatro, la forma d’arte che più di qualsiasi altra ha la capacità di fondere messinscena e atto della visione. La ricerca di genere dell’artista della Scuola di Piazza del Popolo, infatti, non si ferma, se confrontata con il lavoro coevo delle artiste pop americane, alla liberazione della sessualità femminile rispetto a un punto di vista maschile dominante, ma si dipana nella riflessione sulla visione stessa. I suoi soggetti, più frequentemente femminili, sono catturati nell’atto dell’osservare, e circondati da leggere linee prospettiche a matita. Nel dipinto stesso, dunque, viene rappresentato il processo visivo e immaginativo dell’osservatore: Fioroni non «trova» semplicemente le immagini, ma le ricostruisce attraverso l’atto della percezione. La mostra si rivela quindi non solo un’occasione importante di riconsiderazione di alcuni aspetti dell’arte italiana del secondo dopoguerra in territorio statunitense, ma si inscrive in un nuovo interesse per l’investigazione dell’estetica pop in generale, come è evidente dalla serie di mostre sul tema allestite negli ultimi anni: Seductive Subversion: Women Pop Artists 1958-1968 (Brooklyn Museum, 2010), Power Up - Female Pop Art (Kunsthalle Wien, 2010), Sinister Pop (Whitney Museum, 2012). Giosetta Fioroni. L’Argento, Drawing Center, New York, 5 aprile - 2 giugno 2013. 15

«Le mie opere più recenti» – scrive Renato Mambor nel giugno 1965 su «La Botte e il Violino» a proposito della serie dei Ricalchi – «sono ormai articolate con elementi fotografici di tipo didatticodidascalico; anzi, ho intensificato questa forma fino a ridurre le figure a un contorno sagomale, quasi fossero l’equivalente figurale delle voci che potrebbero definirle. […] Una figura di aereo, ad esempio, la introduco solo se capace di conservarsi: “aeromobile più pesante dell’aria, capace di procedere e di dirigersi nella atmosfera per mezzo di organi propulsori = aereo”. Il concetto aeroplano contiene così tutti quei predicati, ma io voglio che rimanga in questa ricchezza, senza scaricarsi in una vicenda o integrarsi in una qualifica.» Tale definizione è calzante per l’opera Aeroplano azzurro (1965-1966), donata dall’artista a Vittorio Rubiu ed entrata, con il lascito Rubiu Brandi, nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. A partire da quest’opera, il 4 maggio Mambor è invitato a ripercorrere la propria sperimentazione in occasione del ciclo di incontri L’artista, l’opera, il museo, organizzato dal museo romano per promuovere la conoscenza delle collezioni attraverso il dialogo tra artisti e curatori; iniziativa che nei mesi scorsi ha già visto protagonisti Gianfranco Baruchello, Sandro Chia, Giosetta Fioroni, Luca Patella. La serie dei Ricalchi, intorno a cui è pensato l’incontro, si rivela cruciale nell’ambito della ricerca estetica di Mambor: essa si configura come uno snodo decisivo tra la fase oggettuale e di azzeramento del coinvolgimento autoriale dei primi anni Sessanta, esemplificata dai Legni, dagli Uomini statistici o dai Timbri, e l’analisi concettuale portata avanti con la serie Filtro del 1967. Con i Ricalchi Mambor s’interroga sullo scarto tra realtà e rappresentazione, andando a esplorare la natura codificata e i limiti del linguaggio; l’artista s’interessa all’aspetto stilizzato dei disegni enigmistici, da cui recupera l’estrema semplificazione formale e l’immediatezza visiva, realizzando immagini concepite come definizioni iconiche della parole a cui si riferiscono. Lo spazio della tela grezza («tela raccoglitrice», secondo Mambor) dove l’artista colloca queste figure-sagome è inteso come superficie neutra che, sul piano mentale, ha la funzione di distanziare le forme piuttosto che porle in relazione tra loro. Tali figure assumono un significato a sé stante rispetto alle figure contigue e sono intese dall’artista come elementi monoverbali e tautologici: «Questi […] rimangono autonomi, autodefiniti: intendo fuggire da qualsiasi intervento manuale che, reso manifesto, creasse una reciprocità contaminatrice di queste “essenze”. Una specie di processo designificatore, quindi, se lo si analizza fino a questo punto. Al bando, allora, accostamenti con intenti significanti e induttori», scrive l’artista sempre sulla rivista di Leonardo Sinisgalli. Mambor non appare interessato all’effetto straniante caro ai surrealisti, dovuto all’incontro tra oggetti incongrui (Zebra e Colosseo, Nudo e palazzo ecc.), quanto a rinvenire un metodo convenzionale, il più possibile obiettivo e di facile comprensione, per rappresentare attraverso la pittura il termine zebra o palazzo, nudo ecc., in modo da formulare graficamente il corrispettivo iconico della parola. Se si vuole rintracciare un filo tra i Ricalchi e il movimento surrealista, come all’epoca è stato fatto in più occasioni dalla critica (Marisa Volpi, Vittorio Rubiu ecc.), è piuttosto sulle questioni linguistiche di Les mots et les images di René Magritte che occorre tornare a riflettere. A partire da Aeroplano azzurro Mambor – in dialogo con Barbara Martusciello – è invitato a intervenire sulle tappe salienti del proprio percorso: dalle Azioni fotografate della fine degli anni Sessanta, all’esperienza teatrale con la compagnia Trousse, dall’elaborazione della serie Osservatore, presentata nel 1991 alla Fondazione Mudima di Milano, fino alle installazioni ambientali più recenti.

alfabeta2 n. 29 maggio 2013

MOLTITUDINI CONNESSE

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A cura di Giorgio Griziotti

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